Una conversazione con Massimo Conti in occasione della presentazione dello spettacolo per ragazzi e adulti I Love You TOSCA a Torino e Milano, nell’ambito del Festival MITO SettembreMusica.
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Secondo Umberto Eco per capire cosa accade quando parliamo di cani, gatti, mele o sedie abbiamo bisogno di categorie, che gli schemi cognitivi ci aiutano a creare: per attribuire un significato a qualcosa bisogna metterlo in una cornice, dargli un’etichetta. Uno dei modi, nel mondo dell’arte, per inquadrare un’opera o un artista è collocarli in un determinato genere: è una nozione da tutti noi continuamente utilizzata, anche se spesso in maniera inconsapevole, come strumento per individuare caratteristiche testuali a cui riferire significati. A partire da questa etichetta, spesso apprezziamo o disprezziamo un’opera proprio per l’individuazione di una variazione, di uno scarto, rispetto al genere in cui l’abbiamo incasellata. Per molti al nome Kinkaleri va associata la categoria “danza”. In I Love You TOSCA la danza dov’è?
Non abbiamo mai subordinato l’idea di realizzazione o di sperimentazione a una collocazione di genere. Nel caso della trilogia dedicata a Giacomo Puccini, che si occupa del melodramma da consegnare nella sua grandezza alle giovani generazioni, volevamo verificare il potere di un linguaggio di tradizione specificatamente italiano come l’opera e il recitar cantando. Volevamo capire quanto un linguaggio abbondantemente sedimentato potesse essere rinnovato senza venire banalizzato. Soprattutto abbiamo cercato di capire quanto potesse essere ancora veicolo di comunicazione di sentimenti ed emozioni. La danza, per non eludere la tua domanda, esiste nel momento in cui diventa necessaria alla scena e alle invenzioni messe in atto per raggiungere lo scopo prefisso. Si danza in Turandot come in Butterfly come anche in Tosca, senza utilizzare però un genere come chiave di lettura. La cosa importante resta l’efficacia o il risultato di un tentativo. In questo caso siamo molto soddisfatti dei risultati ottenuti.
Questo spettacolo conclude, appunto, la trilogia da voi dedicata a Giacomo Puccini. Perché avete scelto proprio questo autore?
Puccini è stato un artista in bilico fra due ere: l’Ottocento che finiva e il Novecento carico di nuove importanti premesse e, soprattutto, di rotture dei canoni fino a quel momento considerati indiscutibili. Come ogni età di mezzo bistrattata perché confusa o poco qualificabile. Questi sono i momenti che ci piacciono di più, forse perché più imprevedibili e in divenire di altri. Puccini è stato amato e odiato, è stato sicuramente il precursore di tanti temi cari al Novecento e, ancora oggi, della figura pucciniana possiamo ammirare sia la sperimentazione musicale, sia la peculiarità assolutamente avanti rispetto ai coevi di interessarsi ad una figura femminile nuova, non meno romantica del precedente periodo ma molto più in conflitto con l’attribuzione di un ruolo sociale, con la passiva accettazione di un destino. Puccini è stato in sintesi un musicista in contino movimento, l’ultimo dei grandi autori del melodramma italiano.
La dannazione propriamente narcisistica di molti artisti li porta ad applicare un proprio modo, o peggio modello, a qualunque opera, autore o tema decidano di affrontare: il rischio per loro è che, come nel mito, non vedano altro che sé stessi, mentre quello per il pubblico è di incontrare unicamente variazioni sul tema del medesimo spettacolo. In cosa Puccini vi ha fatto deviare dalla vostra strada?
Non so esattamente cosa intendi quando parli di deviare, posso azzardare che intendi forse parlare di una questione otto-novecentesca sul rapporto tra arte e vita? Per molto tempo si è teso a dividere questi due ambiti applicando regole diverse per interpretare la stessa persona. Dico persona perché la tendenza a dare a qualcuno che si occupa di cose dello spirito altre accezioni che esulano dal vivente è un vecchio tarlo del pensiero occidentale, che preferisce considerare il mondo in modo dicotomico: il bene e il male, il bianco e il nero, morale e immorale, arte e vita. Un/a artista è qualcuno che cerca un modo per relazionarsi con il mondo, di mostrare un angolo di visione particolare e arbitrario, cercando di condividerlo con più persone possibili. Il margine che esiste tra percorso personale e percorso che riguarda il pubblico è sempre molto ambiguo e friabile, dipende a volte da fattori che esulano completamente dall’opera, dall’artista e persino dallo stesso pubblico. La società contemporanea, con la moltiplicazione dei luoghi di esposizione, da questo punto di vista contribuisce ancora di più a confondere e moltiplicare l’analisi della questione. Per tornare alla domanda che poni, cercando di rispondere, non esistono deviazioni per noi, che da questo punto di vista siamo un autore collettivo, e dunque, risultato della mediazione continua in ogni fase della creazione. Questa condizione, che amo definire biologica, ci costringe continuamente a spostare il confine del sé singolo per ogni volta disegnarne uno nuovo che è la sintesi dei tre, o forse un nuovo soggetto “ricombinato” continuamente. L’unica cosa che posso dirti è che ciò che conta è costruire un rapporto sincero con quello che un autore crea (e dico autore senza smentire quanto ho precedentemente affermato, anzi rinforzandolo), cercando una relazione con chi condivide, da fruitore, un lavoro che non si esaurisce nel momento della sua presentazione pubblica.
«Il performer è colui che parla e agisce a suo nome (come artista e persona), rivolgendosi al pubblico in tale veste, mentre l’attore rappresenta il proprio personaggio e finge di non sapere di essere un attore di teatro. Il performer realizza una messa in scena del proprio io, mentre l’attore recita la parte di un altro»: tornare alla distinzione tra attore e perfomer che Patrice Pavis propone nel suo Dizionario del teatro pare utile nel caso di I Love You TOSCA, spettacolo che ibridando queste due figure sembra dichiarare, dall’inizio alla fine, l’impossibilità della finzione. È così?
Si, in fondo ogni finzione attinge dal reale e ogni reale per poter essere vissuto nella sua pienezza necessità di una visione. I nostri interpreti non sono mai solo esecutori di una forma precostituita a tavolino: partecipano, guidati, alla creazione del personaggio e della scena.
Questa è un allestimento anche per bambini. Uno spettatore adulto cosa può trovare in I Love You TOSCA?
Il nostro referente principale, fin dalla Turandot, è stato un pubblico di bambini con il quale volevamo misurare la capacità dell’opera, nel contemporaneo, di essere ancora un mezzo di comunicazione sia dal punto di vista emotivo che di linguaggio. È per questo che queste opere sono diventate interessanti anche per un pubblico di adulti. Genericamente posso dirti che un adulto viene attratto dall’innovazione linguistica che riesce a restituire una appassionata partecipazione ad un pubblico di bambini.
In concreto come avete costruito lo spettacolo? Chi ha fatto cosa?
I nostri spettacoli nascono molto sul campo (sulla scena) nel senso che partiamo da una idea e proviamo a capire dove conduce, quali possibilità apre e quali limiti offre. In questo caso poi abbiamo anche un punto di partenza a priori: risolvere tutto sempre e solo con due soli attori in scena, un performer che fa tutti i personaggi e una cantante attrice che ricopre il ruolo principale. Marco e Mei sono in scena, Massimo e Gina fuori che danno spunti, offrono riferimenti, propongono soluzioni; durante gli spettacoli ci sono anche Giulia Broggi alle luci e Massimo alla cura del sonoro. Il testo è stato costruito in anticipo a tavolino, per poi essere testato e modificato sulla scena. Scene luci e costumi sono decisi, testati e realizzati da noi, modificando e aggiustando via via che lo spettacolo prende forma e sostanza.
Il 15 e 16 settembre I Love You TOSCA sarà rispettivamente a Torino e Milano, ospite del prestigioso Festival MITO SettembreMusica. Quale rapporto con il suono e soprattutto con il silenzio si istituisce, qui?
Il tentativo con I Love You Tosca è quello di affrontare il tema scabroso della storia, per un pubblico infantile, cercando di non eludere ogni passaggio drammaturgico. Restando agganciati alla struttura del melodramma abbiamo cercato come sempre di mantenere il più possibile un ritmo, linguistico e sonoro che potesse attraversare la visione di un bambino in un flusso continuo. Rispetto alle opere precedenti, Tosca è più rumorosa e turbolenta, forse anche più caotica e grottesca dal punto di vista sonoro: lasciamo galleggiare tra le arie famose del melodramma un’idea di un sonoro quasi da fumetto, o da videogame. Il ritmo dello spettacolo risulta per ciò incalzante e sospeso, rumoroso e melodico, maestoso e grottesco, spaventoso e accogliente. Di silenzi ce ne sono davvero pochi questa volta.
MICHELE PASCARELLA
15 settembre, ore 16 e ore 18, Torino, Casa Teatro Ragazzi e Giovani, Corso Galileo Ferraris, 266/c + 16 settembre, ore 16 e ore 18, Milano, Teatro Bruno Munari, Via Giovanni Bovio, 5 – info: mitosettembremusica.it, kinkaleri.it