Alcune note a partire da due concerti incontrati grazie al Ravenna Festival e all’Emilia Romagna Festival: modi opposti, ci sembra, di intendere il fatto musicale.
Una di quelle esperienze che, almeno per un po’, mettono pace con il genere umano. In un tempo di brutture imperanti e abbruttimenti cavalcanti pensare che qualcuno, un giorno, ha concepito questa musica, che qualcuno, un giorno, ha edificato questo luogo, che qualcuno, un giorno, ha costruito e studiato questi strumenti e questa partitura, che qualcuno, infine, ha organizzato questa serata: un fare e inventare e desiderare, di secoli e di umani, affinché giunga alle orecchie e nei cuori di altri umani una tale commovente perfezione.
Stiam parlando dell’Accademia Bizantina che esegue in uno dei posti più mozzafiato dell’universo-mondo, la Basilica di Sant’Apollinare in Classe a pochi chilometri da Ravenna, L’arte della Fuga di Johann Sebastian Bach.
Monumentali saggi son stati scritti su questa mitologica composizione e sul suo ancor più mitologico autore, certo non vogliamo né possiamo aggiungerci al coro. Ciò di cui vorremmo seppur brevemente rendere conto ora è come i musicisti dell’ensemble nato a Ravenna nel 1983 (cembalo e direzione Ottavio Dantone, Alessandro Tampieri e Ana Liz Ojeda violini, Diego Mecca viola, Mauro Valli violoncello e Stefano Demicheli organo) abbiano dato corpo a una forma sonora in sé profondamente commovente.
Fuga, vale forse ripeterlo per i non addetti ai lavori, non è termine qui da intendersi in senso comunemente romantico (fuga d’amore, fuga da un luogo di costrizione, fuga verso un destino diverso, …). Nel caso del Kantor tedesco, fuga è la forma musicale polifonica basata sull’elaborazione contrappuntistica di un’idea tematica (a volte due o tre), che viene esposta e più volte riaffermata ricercando tutte le possibilità tecnicamente da essa offerte. Massimo splendore di questa forma: seconda metà del Seicento e prima metà del Settecento, in concomitanza con l’esistenza in vita di Bach, appunto, che ne è stato forse il massimo interprete.
A ciò si aggiunga che nel 1747 Bach entrò a far parte di una Società delle Scienze Musicali riservata a musicisti che fossero contemporaneamente esperti di filosofia e matematica, nella più pura tradizione pitagorico-medievale. I componenti della Società si erano dati il compito, con cadenza annuale, di scambiarsi dissertazioni scientifiche su argomenti matematico-musicali: è in questo contesto che il Nostro concepì L’arte della Fuga, come partitura utile a dimostrare una speculazione tra scienza, filosofia ed esoterismo. È peraltro noto come questa composizione sia in parte stata scritta in modo cifrato, con la firma dell’autore inserita nell’ultima delle fughe ovvero, nella denominazione tedesca, le note B, A, C, H (che corrispondono ai “nostri” si bemolle, la, do e si bequadro).
Senza indugiare oltre in tale direzione, quanto accennato può forse bastare a proporre un dubbio: un impianto così razionale, ai limiti del cervellotico si potrebbe osar di dire, cosa ha a che fare con l’arte, con l’emozione o, più precisamente, con la commozione?
Per cercare una risposta si può forse partire dalle note del direttore Ottavio Dantone proposte nel ricco programma di sala: «Quello che sembra apparire come un mero esercizio tecnico-speculativo diventa opera d’arte nel momento in cui il compositore, pur rispettando le complesse regole di autoimposizione che la fuga prescrive, riesce a liberarsi e a rappresentare la bellezza della musica. L’emozione che se ne può ricavare è tanto maggiore quanto più è la sua difficoltà e molteplicità formale, unita al piacere e al miglior risultato musicale».
Alcuni termini usati (bellezza, piacere, miglior risultato) possono risultare scivolosamente soggettivi. Ci rivolgiamo allora agli scritti di un energico filosofo della musica americano, Peter Kivy, che nel 2002 ha dedicato alcune pagine alla questione delle emozioni nella musica: «Quando dico che un passaggio musicale è allegro o melanconico, posso argomentare la mia affermazione indicando altre caratteristiche della musica in virtù delle quali la musica è allegra o melanconica. L’allegria della musica è una nuova qualità prodotta dalla forza combinata della tonalità maggiore, del tempo rapido e saltellante, della forte dinamica, dei temi vivaci e galoppanti. Chiamare qualità complesse le qualità emotive della musica enfatizza il fatto che un passaggio musicale è allegro, malinconico, o che altro, a causa di altre caratteristiche musicali che lo rendono così. Chiamarle qualità emergenti enfatizza il fatto che esse sono percepite come qualità distinte, qualità per diritto proprio separate dalle qualità che possono produrle. In altre parole, sembra esserci una diretta analogia tra l’aspetto e i suoni delle persone quando esprimono le emozioni comuni e il modo in cui la musica suona o è descritta quando è percepita come espressiva di quelle stesse emozioni».
Al di là delle proiezioni individuali e dei nomi che dati alle cose, dunque, ciò che fa muovere con la musica (dunque, etimologicamente, ciò che commuove di essa) sembrano essere, propriamente, le sue qualità formali: altezza, intensità, timbro ecc e, nel caso della fuga, il tema e la risposta, lo stretto e il pedale, e così via.
È un modo di intendere il fatto musicale che mette l’accento più sulla struttura che sull’espressione, o meglio è una concezione che considera la struttura come un a priori logico che rende possibile la comunicazione delle emozioni: la commozione della forma, appunto.
Questo è ciò che ci pare sia risultato preminente nella luminosa proposta bachiana del Ravenna Festival.
Di segno opposto il concerto presentato nell’ambito dell’Emilia Romagna Festival al Teatro Diego Fabbri di Forlì: Richard Galliano, uno dei più grandi fisarmonicisti viventi, assieme a Massimo Mercelli al flauto e alla poderosissima, brillantissima (quanti superlativi si potrebbero usare) Filarmonica Arturo Toscanini di Parma.
In scaletta composizioni affatto proteiformi di Sollima, Piazzolla, Vivaldi e dello stesso Galliano. Rispetto alla proposta ravvenate in cui le forme drammatiche (nel senso etimologico di azioni della partitura) potevano essere inscritte in un’unica linea, nella serata forlivese grande ed esplicita è stata la varietà di mondi sonori attraversati (valse e pavane, concerti e musette, …).
L’attitudine dei due Maestri di assoluta levatura, sostenuti da un’orchestra (oltre venti elementi) vibrante e vitalissima, è forse sintetizzabile nella formuletta la forma della commozione.
Sembra che alla base della proposta dell’Emilia Romagna Festival ci sia l’idea, storicamente romantica, di arte come espressione di un sentire, se non di un sentimento, nonché la concezione classica di artista come colui (o, ahinoi più raramente nella nostra società, colei) che possiede una perizia che lo/la distingue dal non artista. Un saper fare tecnico che include la capacità di “maneggiare” i sentimenti, la cui espressione è, in un tale contesto, considerata indice di artisticità.
Il concerto forlivese pare pensato, in senso barocco, come “macchina della meraviglia”: cascate di note del solista su un’orchestra che spesso all’unisono propone una serie di note ribattute, straordinaria velocità di esecuzione, evidenti variazioni ritmiche, tonali e dinamiche, chiuse accentate, a volte volutamente dissonanti. Galliano assume su di sé, si potrebbe sintetizzare, l’immagine dell’artista che abbiamo in mente: in questo efficace gesto comunicativo con la platea, e non solo in questo, è un Maestro.
A proposito della corrispondenza con l’immagine che il pubblico ha in mente vale forse spendere qualche riga a proposito della revisione e trascrizione per fisarmonica e archi, a cura dello stesso Richard Galliano, del celeberrimo Concerto n. 2 in sol minore per violino e archi L’Estate di Antonio Vivaldi.
Ciò che interessa notare è quello che accade allo spettatore mentre sta ascoltando una tale musica. Stando ancora per un attimo con il già citato Peter Kivy si potrebbe forse parlare del gioco musicale del nascondi e cerca, che ha a che fare con il naturale istinto che porta l’ascoltatore a tentare di riconoscere le melodie che costituiscono la struttura musicale. Un possibile compito che il compositore si può dare è quello di variare queste melodie, nasconderle, alterarle, smembrarle, come a costruire rebus da risolvere. La proposta di Galliano e colleghi pare dunque essere quella di ri-conoscere L’Estate di Vivaldi (non a caso musica a programma, dunque con un contenuto semantico, o almeno con un titolo-tema che lo annuncia), per di più con la piena coincidenza temporale con il periodo in cui viene proposta: una tautologia.
In tale sistema di segni la musica, come ogni linguaggio d’altra parte, rappresenta una mediazione, si costituisce come incontro di due trame, una culturale e l’altra naturale: è la condizione affinché possa essere significativa.
Tutto ciò aprirebbe a una serie di riflessioni (almeno per noi di assoluto interesse) su come -da un punto di vista semiotico- ogni proposta musicale agisca su un doppio livello: quello del significante (cioè della struttura della partitura, delle sue regole interne, ecc) e quello del significato (che è sempre contestuale, dunque culturale, dato che ogni linguaggio è fatto sociale ancor prima di essere faccenda espressiva e individuale)… ma ciò ci porterebbe lontano dal discorso che abbiamo cercato di proporre in questa sede.
Grazie dunque al Ravenna Festival e all’Emilia Romagna Festival, che a distanza di pochi giorni e di pochi chilometri hanno offerto non solo e non tanto due concerti, quanto due modi opposti, ci pare, di intendere l’accadimento sonoro organizzato. E, per estensione, l’arte tutta e, dunque, il mondo.
MICHELE PASCARELLA
Accademia Bizantina – ascoltata alla Basilica di Sant’Apollinare in Classe (RA) il 10 luglio 2018 – info: ravennafestival.org
Richard Galliano, Massimo Mercelli e Filarmonica Arturo Toscanini – ascoltati al Teatro Diego Fabbri di Forlì il 25 luglio 2018 – info: emiliaromagnafestival.it