Il film dentro al film, “Insect” al Future Film Festival

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Un film che è una sorta di scatola cinese. Uno dei migliori esempi di enunciazione enunciata, di film dentro al film al cubo. Una profonda e attenta riflessione metacinematografica. Questo fa di “Insect” del regista Jan Svankmajer uno dei pezzi forti del programma del Future Film Festival.

Insect” sono tre film in uno. Il primo è quello che lo spettatore vede proiettato sullo schermo. Il secondo è il film che mostra come è stato girato il terzo film: i protagonisti sono lo stesso regista, gli attori, i responsabili tecnici di tutto il team di creazione della pellicola. Infine, il terzo film è la storia raccontata, quella di finzione: un gruppo di attori sgangherati che cercano di portare in scena una pièce teatrale dei fratelli Capek, “La vita degli insetti”. In questo groviglio di film, il secondo rappresenta la realtà, il terzo la finzione mentre il primo le contiene entrambe.

La pellicola si apre con un uomo che corre, che si scoprirà essere uno degli attori protagonisti del terzo film. Scatto e compare Jan Svankmajer: ogni libro ha una sua prefazione – dice – che aiuta il lettore nella comprensione o che semplicemente fornisce un quadro generale, utile a inserire la storia all’interno di un contesto specifico, oppure ancora racconta la nascita del libro e la fase di stesura. Perché anche un film non può avere una prefazione? Ed è proprio quello che fa Jan Svankmajer: racconta di come è nata l’idea del film, di come è stato scritto – di getto -, e del suo legame con la letteratura, vale a dire il testo teatrale. Ciò che Jan Svankmajer tiene a sottolineare è che lui è un regista che rispetta l’autore da cui trae ispirazione. Stacco e inizia la finzione: un regista ha convocato un piccolo gruppo di attori per fare le prove dello spettacolo “La vita degli insetti“, ma molti di loro sono in ritardo. Scopriamo presto che l’uomo che abbiamo visto correre all’inizio è uno di loro. Il regista mostra loro una teca di insetti, per aiutarli ad entrare nel personaggio, ad immedesimarsi. Il miglior metodo è quello Stanislavskij, dice: un metodo che richiede un profondo lavoro psicologico sul personaggio nella ricerca di una affinità tra l’attore e il personaggio stesso che finiscono così per diventare un’unica cosa. Il regista della pièce comincia ad assegnare le parti e nel farlo indica continuamente verso lo spettatore, in un chiaro tentativo di coinvolgimento: “anche tu, caro spettatore, sei un pessimo attore che deve recitare la sua parte”, sembra dire. Ed ecco di nuovo uno scatto che porta alla realtà, dove Jan Svankmajer parla del suo rapporto con gli attori, che devono essere come marionette nelle mani del regista – così come lo sono quelli della finzione – e delle tecniche di ripresa, semplici e con pochi movimenti di macchina da presa. Si potrebbe andare avanti per molto, descrivendo ogni singolo scarto che dalla finzione passa alla realtà per poi tornare alla finzione, ma credo che ormai il meccanismo di incastri possa risultare chiaro.

Il secondo film mostra nuovamente le scene viste nel terzo e ne svela i trucchi, i segreti, gli strumenti del mestiere, in particolare come vengono creati gli effetti speciali, come l’attore entra nel personaggio, come il regista lavora sul set e anche come funziona la tecnica di stop-motion. Questa infatti, in particolare, entra costantemente nella finzione nel momento in cui i protagonisti cominciano ad entrare sempre più in profondità nella psicologia degli insetti: la finzione che entra dentro la finzione dunque; ancora una volta un lavoro di incastri.

Il terzo film racconta invece la storia di questa compagnia di attori mediocri: qui si innesta una riflessione sulla recitazione e sul rapporto tra il cinema e il teatro, tra ciò che il cinema può fare e ciò che il teatro invece non può fare, vale a dire gli effetti speciali. In particolare questo teatro manca di musica, mentre il film utilizza quella extradiegetica per enfatizzare il momento: è grazie a lei – unita alla bravura dell’attore – che la scena dell’insetto omicida risulta molto più credibile rispetto alla prova precedente. Il terzo film è poi pieno di allusioni sessuali, con una costante ossessione per la bocca che viene continuamente inquadrata, come se si volesse evidenziare la parte del corpo in grado di alternare realtà e finzione, parlato e recitazione. In questo gruppo di attori incapaci – interpretati da attori professionisti che devono fingersi incapaci – uno su tutti risulta emergere: quello che dorme sempre, che si sveglia improvvisamente e recita parti della pièce e che sul palco durante le prove tiene uno dei monologhi meglio recitati. Lui rappresenta il metodo Stanislavskij per eccellenza, colui che è entrato talmente tanto nel personaggio da non distinguersi più da esso, nemmeno quando dorme.

Arriviamo dunque al primo film che contiene tutti i film: esso appare come una sorta di labirinto, un labirinto dell’inconscio. Il primo film sembra quasi un sogno ed infatti c’è una continua insistenza su questo tema sia nel secondo film – dove gli attori professionisti parlano dei loro sogni – sia nel terzo film – con l’attore che dorme sempre ma anche con l’entrata della finzione nella finzione. Il primo film, quello che vede lo spettatore, è dunque come un sogno che unisce realtà e finzione, le mischia a tal punto da non riconoscere la differenza, come racconta uno degli attori intervistati quando afferma a volte di svegliarsi per poi accorgersi dopo un po’ di essere in realtà dentro un altro sogno. E il sogno è la metafora perfetta per raccontare il cinema: sullo schermo finzione e realtà diventano un connubio indissolubile che stordisce lo spettatore e alla fine, quando appaiono i titoli di coda e si accendono le luci, lo spettatore si rende conto che anche ciò che sembrava reale è in verità pura finzione. Il primo film, che contiene realtà e finzione, è a sua volta finzione: esattamente come svegliarsi da un sogno, credere di essere svegli e trovarsi invece dentro un altro sogno. E questo sogno bellissimo è il cinema.