Generazione Scenario 2017. Davvero o per finta?

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Un eschimese in Amazzonia - foto di © Stefano Vaja

 

Alcune note sul debutto nazionale, avvenuto a Teatri di Vita di Bologna e al Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno, dei vincitori dell’Edizione del Trentennale del prestigioso Premio.

Una premessa.

La Giuria dell’Edizione del Trentennale del Premio Scenario, presieduta da Marco Baliani e composta da Stefano Cipiciani, Edoardo Donatini, Lisa Gilardino, Cristina Valenti e Pasquale Vita, proponendo uno stratificato discorso (termine da intendersi foucaultianamente come «luogo dell’articolazione produttiva di potere e sapere») alla comunità di operatori e appassionati di teatro e danza italiani, si è assunta la responsabilità di instaurare ciò che Jacques Rancière definisce «regime del sensibile»: un modo di organizzazione delle evidenze che determina il rapporto fra ciò che, in una data epoca o in un determinato contesto (in questo caso: il pubblico presente a Bologna e Casalecchio di Reno il 2 o 3 dicembre 2017) è sensibile e ciò che non è sensibile, fra ciò che è visibile e ciò che resta invisibile e -di conseguenza- fra ciò che è enunciabile e ciò che non lo è. Per chiarezza (e per esempio): si è visto lo spettacolo di Liv Ferracchiati, e dunque se ne è potuto parlare, perché la Giuria ha deciso di premiarlo. Se così non fosse stato l’artista non avrebbe potuto dir la sua e noi non avremmo avuto modo di dir la nostra sul suo dire. Fin qui, nulla di nuovo: questo è ciò che fa, con tutta evidenza, qualsiasi direttore artistico o giurato, illuminato o meno, di qualunque manifestazione, grande o piccola che sia. Quel che pare doveroso sottolineare, in questa occasione, è l’intenzione (nell’accezione etimologica di in-tensione, di spinta che dall’interno del soggetto muove verso l’altro da sé) profondamente maieutica, volta a incoraggiare e sostenere, in questa edizione forse ancor più che in quelle degli ultimi anni, due attitudini apparentemente opposte: presentazione e rappresentazione, teatro e performance, produzione e riproduzione di realtà.

Detto altrimenti, Generazione Scenario 2017 ibrida due modi di esistenza scenica efficacemente sintetizzati da Patrice Pavis nel suo Dizionario del teatro: «Il performer è colui che parla e agisce a suo nome (come artista e persona), rivolgendosi al pubblico in tale veste, mentre l’attore rappresenta il proprio personaggio e finge di non sapere di essere un attore di teatro. Il performer realizza una messa in scena del proprio io, mentre l’attore recita la parte di un altro».

È da questo punto di vista che proveremo a dar brevemente conto degli spettacoli premiati, astenendoci da ogni valutazione di merito (la quale potrebbe forse risultare inopportuna, trattandosi di progetti e artisti in una fase più o meno aurorale del proprio percorso).

Fine della premessa.

 

Bau#2 – foto di © Stefano Vaja

 

È un grado zero della presenza quello in cui agisce la coreografa Barbara Berti: un io pienamente corporeo, che fa del qui e ora il punctum e al contempo lo studium, per dirla con Barthes, di una danza molecolare occupata più ad ascoltare ciò che accade in scena che a (di)mostrarsi. Un testo dagli intenti filosofici, proferito con pacatezza, si intreccia a una partitura di fluidi movimenti al rallentatore che richiama certi atteggiamenti, azioni e tecniche del tàijíquán.

Dalla tradizione cinese il lavoro di Berti riprende inoltre la presenza in scena di un’assistente, Liselotte Singer, la cui funzione pare essere prioritariamente quella di facilitare l’esperienza dell’attuante (non è forse del tutto improprio utilizzare un termine dagli echi grotowskiani in relazione a una proposizione che sembra intendere l’Arte come veicolo, appunto, di scoperte affatto personali).

Dal punto di vista formale, ammesso e non concesso che in questo caso abbia senso considerare tale livello, la struttura di Bau#2 richiama certe dimostrazioni di lavoro dell’Odin Teatret in cui l’intreccio di partiture fisiche e testi ha intento esplicitamente didattico, così come le liminali (e interessantissime) ricerche tra yoga e danza della ravennate Francesca Proia e della francese Myriam Gourfink.

 

Un eschimese in Amazzonia – foto di © Stefano Vaja

 

Un eschimese in Amazzonia di Liv Ferracchiati, artista in grande ascesa a cui recentemente hanno dato spazio e voce, tra gli altri, il Terni Festival e la prestigiosissima Biennale di Venezia – Teatro diretta da Antonio Latella, mette esplicitamente al centro un dato dichiaratamente autobiografico: la transizione fisica e mentale da donna a uomo e la contestuale (ri)appropriazione dell’identità maschile.

Ferracchiati, in scena con e contro un coro “calcistico”, tratta l’argomento con socratica ironia, à la Nanni Moretti, costruendo una comunicazione diretta, intrisa di riferimenti facilmente identificabili (da MasterChef a Donald Trump, fino a Vasco Rossi) e musiche orecchiabili: teatro di giovani, per giovani d’anagrafe o di spirito. Come non pensare, per l’analoga aderenza biografica alle tematiche trattate e l’indubbia efficacia comunicativa, al successo mondiale di MDLSX di Motus?

In merito alla costruzione e alla resa scenica del testo, un altro riferimento esplicito pare essere il lavoro di Babilonia Teatri: «Per quanto non recitati ma affidati alla pura esposizione, statica, frontale, non mimetica da parte degli attori» ha scritto Cristina Valenti nella densa introduzione ad Almanacco. I testi di Babilonia Teatri di Enrico Castellani e Valeria Raimondi (Titivillus, 2013) «i testi sono portatori di una realtà che interagisce con la fisicità dei corpi, si condensa nella trama delle immagini, rimbalza fra le parole, gli oggetti, le azioni». Una sintesi, quella dell’autorevole storica del teatro, che in buona parte pare si possa attagliare con esattezza a Un eschimese in Amazzonia.

 

Da dove guardi il mondo? – foto di © Stefano Vaja

 

È realtà pienamente rappresentata quella di Da dove guardi il mondo? di Valentina Dal Mas, spettacolo vincitore del Premio Scenario Infanzia 2017: «Danya è una bambina di nove anni che non ha ancora imparato a scrivere. È l’eccezione che non conferma la regola. Lungo il cammino che porta alla scrittura si ferma, perde dei pezzi, o forse le mancano, o forse quelli che ha non sono giusti per lei. Passo dopo passo incontra quattro amici, ognuno portatore di qualità fisiche, caratteriali e comportamentali che li rendono diversi e unici di fronte agli occhi curiosi di Danya». 

Attiva nella fucina della Compagnia Abbondanza/Bertoni, dalla cui prassi ha attinto in maniera evidente alcuni stilemi nella costruzione spezzata delle figure e il modus operandi nell’articolazione -per sequenze di immagini affioranti- dello sviluppo coreografico, Dal Mas imprime un andamento regolare all’alternanza di testo e gesti danzati, con marcata finalità illustrativa e didascalica (dunque, ancora una volta etimologicamente, di insegnamento) a un teatro che non rinuncia a presentare a chiare lettere un proprio punto di vista sul mondo.

 

I Veryferici – foto di © Stefano Vaja

 

Lamin Kijera, Moussa Molla Salih, Alexandra Florentina Florea, Natalia De Martin Deppo, Youssef El Gahda, Matteo Miucci, Younes El Bouzari, Gianfilippo Di Bari, Camillo Acanfora: il suono dei nomi degli attori in scena dà immediatamente il sapore meticcio de I Veryferici, spettacolo di Shebbab Met Project vincitore del Premio Scenario per Ustica. Ancora una volta si tratta di realtà presentata, anzi gridata a gran voce.

Il fil rouge è costituito da una serie di canzoni rap (multietnico e underground) intrecciate a una ridda di azioni, emersione performativa di proteiformi biografie scenicamente organizzate, con ogni probabilità, attraverso una scrittura scenica consuntiva e collettiva: è un noi pieno di entusiasmo e di rabbia, di energia e mancanze, quello che abita la scena de I Veryferici, spettacolo in cui l’urgenza espressiva intenzionalmente soverchia ogni raffinatezza linguistica. Con alcune eccezioni, come in un sospeso dialogo fra due attori arabi: «Mio cugino crede di essere più tedesco dei tedeschi. Perché in fondo la biondezza è una condizione dell’anima». Sublime.  

Gli spettacoli sono andati in scena a Teatri di Vita di Bologna e al Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno nell’ambito dell’iniziativa Generazione Scenario 2017. Prime rappresentazioni organizzata dall’Associazione Scenario, a cui va il nostro vivo ringraziamento per il preziosissimo, lungimirante lavoro svolto in questi primi trent’anni di attività.

 

MICHELE PASCARELLA

  

Visto il 3 dicembre 2017 – info: associazionescenario.it