Alcune note sulla quindicesima edizione del Festival diretto a Prato da Edoardo Donatini. Tra teatro e performance.
Un discorso su un discorso.
Edoardo Donatini ha ancora una volta dato prova di lungimirante sapienza curatoriale proponendo uno stratificato discorso (termine da intendersi foucaultianamente come «luogo dell’articolazione produttiva di potere e sapere») alla comunità di Prato e alla società teatrale accorsa in occasione di un manipolo di proteiformi proposizioni anche grazie al paziente, sorridente lavoro di Cristina Roncucci.
Donatini si è assunto la responsabilità di instaurare ciò che Jacques Rancière definisce «regime del sensibile»: un modo di organizzazione delle evidenze che determina il rapporto fra ciò che, in una data epoca o in un determinato contesto (in questo caso: il pubblico presente a Prato dal 22 al 26 settembre 2017) è sensibile e ciò che non è sensibile, fra ciò che è visibile e ciò che resta invisibile e -di conseguenza- fra ciò che è enunciabile e ciò che non lo è. Per chiarezza (e per esempio): a Prato si è visto lo spettacolo di Milo Rau, e dunque se ne è potuto parlare, perché Donatini ha deciso di invitarlo. Se così non fosse stato l’osannato regista non avrebbe potuto dir la sua e noi non avremmo avuto modo di dir la nostra sul suo dire. Fin qui, nulla di nuovo: questo è ciò che fa, con tutta evidenza, qualsiasi direttore artistico, illuminato o meno, di qualunque manifestazione, grande o piccola che sia. Quel che pare doveroso sottolineare, in questa precisa occasione, è l’intenzione (nell’accezione ancora una volta etimologica di in-tensione, di spinta che dall’interno del soggetto muove verso l’altro da sé).
Se è vero, per stare ancora una volta con Michel Foucalt, che «ogni società si può giudicare dal modo in cui organizza e vive il rapporto con l’altro», la forza di questa proposizione (profondamente) culturale sta nel concentrare due spinte apparentemente opposte: presentazione e rappresentazione, teatro e performance, produzione e riproduzione di realtà.
Contemporanea 2017 ha ibridato due modi efficacemente sintetizzati da Patrice Pavis nel suo Dizionario del teatro: «Il performer è colui che parla e agisce a suo nome (come artista e persona), rivolgendosi al pubblico in tale veste, mentre l’attore rappresenta il proprio personaggio e finge di non sapere di essere un attore di teatro. Il performer realizza una messa in scena del proprio io, mentre l’attore recita la parte di un altro».
Da questo punto di vista, sono forse tre i lavori incontrati a cui vale brevemente accennare (non racconteremo di Empire del già nominato Milo Rau: moltissimi autorevoli colleghi ne hanno già scritto, ciascuno dalla prospettiva che gli è propria – pare pleonastico aggiungersi al coro).
Significativamente, il Festival si è aperto con una proposta esperienziale di Kate McIntosh, ad agire sul grado zero della presenza di artisti e pubblico: «In Many Hands trascina gli spettatori in un mondo tattile e multi sensoriale, invitandoli a maneggiare collettivamente materiali e a immergersi in una esperienza corporea» si legge nel programma di sala «In Many Hands è sia una esplorazione di vibrante fisicità, che un sottile esperimento sociale che avvicina degli sconosciuti attraverso la comunicazione non verbale». Nulla di nuovo, sia chiaro: nulla che non sia già stato fatto, e con ben altro piglio rivoluzionario, da Filippo Tommaso Marinetti con le Tavole Tattili un secolo fa, da Bruno Munari e da Ay-O (con le Finger boxes) mezzo secolo dopo, così come da innumerevoli anonime insegnanti afferenti al Sistema delle Scuole dell’Infanzia di Reggio Emilia (e non solo) da qualche decennio. Tutto il valore di questa proposta, in sé affatto opinabile, sta nel guizzo curatoriale di porla in apertura del Festival: come un cominciamento, per chiarire di cosa stiamo parlando, forse.
Una fenomenologica fiducia a un qui e ora autosignificante pervade I’M OK di Kinkaleri, performance in cui due giovani di origine africana, posti schiena contro schiena con l’unico diaframma (o collante) costituito da un telo di plastica metallizzata, per 25 minuti realizzano, a pochi centimetri di distanza dagli spettatori, un flusso organico di azioni, suoni vocalici e parole che, lungi dal rimandare a tematiche esplicitamente sociali, si (pro)pone per ciò che è: corpo-voce in azione. Non è nuova, per lo storico collettivo guidato con pervicace entusiasmo da Massimo Conti, Marco Mazzoni e Gina Monaco, un’attitudine strutturalista di messa in evidenza del dispositivo scenico: I’M OK, pare di poter affermare, propone il correttivo di virare verso un dato puramente organico, bios che vale in quanto tale. Ciò non faccia pensare, sia detto chiaramente, a qualcuno che in scena fa “ciò che capita”: restando per un attimo con Richard Schechner, si potrebbe affermare che I’M OK è costituito dalla «messa in opera-attivazione-esecuzione» (performing, appunto) «di bits comportamentali già fissati-appresi-incorpati». La proposta di Kinkaleri si inserisce in una scia, originatasi almeno negli anni Sessanta, che vede l’accentuazione della componente performativa nelle pratiche coreutiche: come non pensare a Jérôme Bel, artista che proprio a Prato è ormai di casa e che con Kinkaleri ha in essere un articolato dialogo?
Perfettamente in bilico fra performance e teatro è la conferenza-spettacolo L’emozione del pudore di Massimiliano Civica. In quaranta densi e leggiadri minuti l’artista romano analizza tre frammenti video (di Orson Wells, Nina Simone, Ettore Petrolini) per raccontare con passione e precisione «tre modi di emozionare con pudore». E lo fa, direbbe Ennio Flaiano, «con quella pacata amara indifferenza dell’attore che conosce i polli della sua platea»: in questo Civica è un maestro. Così come lo è nella costruzione del testo verbale: stratificato e prismatico in ogni singolo passaggio, acrobatico nello sviluppo drammaturgico complessivo, che procede per salti, scatole cinesi, ritorni, entrate e uscite dallo sviluppo diegetico, incursioni nella Storia del Teatro del Novecento, che costituisce nutrimento e orizzonte di senso. Tornando per un attimo al già citato Patrice Pavis: «Non si presenta quale attore che reciti una parte, ma […] in relazione diretta con gli oggetti e la situazione di enunciazione». Oggetti e situazione pienamente afferenti al mondo delle arti della scena, che Civica scruta con microscopica precisione, con sguardo divertente e divertito, personale e distaccato, politico e poetico. Chapeau.
MICHELE PASCARELLA
info: contemporaneafestival.it