Teatro e (esplicita) autobiografia: non è una novità.
Tra i molti possibili esempi: Racconti di Giugno di Pippo Delbono, Il libro di Ester di Iben Nagel Rasmussen, Tumore. Uno spettacolo desolato di Lucia Calamaro, tutti (o quasi) gli spettacoli del Teatro delle Ariette.
Il nesso, costitutivo, fra teatro e autobiografia è forse fondato sul fatto che l’attore è al contempo, come ebbe a osservare Mejerchol’d, l’artista e il materiale.
Come non pensare ad Artaud, al Living e a Grotowski, al loro usare la propria biografia come una leva per scardinare il teatro di testo e di rappresentazione, o forse il teatro-spettacolo tout court? In un certo senso, si potrebbe dire con lo storico Marco De Marinis, che «il teatro autobiografico può essere considerato una delle modalità o, meglio, dei dispositivi del teatro postdrammatico».
Frammentazione, incompiutezza, discontinuità, simultaneità, opacizzazione dei segni: tutti o quasi i dispositivi, appunto, enucleati da Hans-Thies Lehmann nel suo Postdramatisches Theater del 1999 (una specie di Bibbia, per i cultori della materia) si ritrovano in Between me and P. di Filippo Michelangelo Ceredi.
La performance è nata, si legge nel sito web dell’artista, «dalla radicale esigenza di riappropriazione di una storia famigliare. Pietro sparì volontariamente nel 1987 all’età di 22 anni, senza lasciare tracce. Dopo venticinque anni Filippo, il fratello minore, ha avviato una lunga ricerca per tentare di avvicinarsi a lui e capire cosa lo portò alla decisione di sparire. La ricerca è un tentativo di portare luce su un’assenza silenziosa e pervasiva, e la sua elaborazione scenica una possibilità di trasmettere questa storia».
Ceredi si pone in relazione a questo materiale (per lui) incandescente con fredda attitudine tassonomica: in sottrazione, al servizio di questa minimale macchina della memoria e del racconto. Scrive al computer, armeggia con gli apparati tecnologici, dispone materiali nello spazio scenico, che prima dello spettacolo pulisce con attitudine monacale. Utilizza una serie di supporti fotografici e testuali, in vari modi riconducibili al fratello scomparso, per circoscrivere, fisicamente, un’assenza. Come nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio: «Il vasaio Butade Sicionio scoprì per primo l’arte di modellare i ritratti in argilla; ciò avveniva a Corinto ed egli dovette la sua invenzione a sua figlia, innamorata di un giovane. Poiché quest’ultimo doveva partire, essa tratteggiò con una linea l’ombra del suo volto proiettata sul muro dal lume di una lanterna; su quelle linee il padre impresse l’argilla riproducendone il volto; fattolo seccare con il resto del suo vasellame lo mise a cuocere in forno».
Between me and P. è una performance mobile: non hortus conclusus, ma sistema aperto, in costante evoluzione. In questo senso pare che le progressive stratificazioni dei suoi materiali, le accumulazioni e le sottrazioni, le modifiche all’ordinamento strutturale, le mancanze e le manipolazioni cui ci troviamo davanti (che a tratti rendono un po’ problematica la ricostruzione puramente “storica” – ammesso che essa sia il punto, ma il punto non è), siano semplici manifestazioni di un processo dinamico, intrinseco alla vita stessa dell’opera-archivio.
Come non pensare, affacciandosi al milieu delle arti visive, a Christian Boltanski, a Sophie Calle o a Félix González-Torres – al loro intendere l’opera come luogo della memoria, personale et ultra, da attraversare o in cui sostare?
Per chiarezza: si usa qui il termine «luogo» nell’accezione proposta dal gesuita francese Michel De Certeau, là dove riflette sulla «necessità di fondare il posto da cui [si] parla», precisando: «Tale posto non è affatto garantito da enunciati autorizzati (o «autorità») sui quali il discorso poggerebbe, e neppure da uno statuto sociale del locutore nella gerarchia di un’istituzione dogmatica […] il suo valore proviene unicamente dal fatto che si produce proprio nel punto dove parla il Locutore […] la sola autorizzazione gli viene dall’essere il luogo di questa enunciazione».
Detto altrimenti: essere il luogo da cui si pronuncia una parola. Questa pare essere la caratteristica peculiare della proposizione di Ceredi.
Dal punto di vista formale, la lingua (visuale, testuale e fisica) che l’autore adotta è bassa, brusca, solo parzialmente selezionata, mai edulcorata. L’andamento è del tutto anti-spettacolare, “etimologicamente” teatrale.
Il rischio di tale operazione è che essa rimanga una faccenda, nomen omen, Between me and P.: fra l’autore e suo fratello. A scongiurarlo, oltre ai dispositivi e agli accorgimenti a cui si è provato ad accennare, la guida amorevole di Daria Deflorian e del Teatro delle Moire, artisti che in vari modi e tempi hanno contribuito all’esistenza di questa opera, che pare pienamente organica a un’edizione del Festival di Santarcangelo -la prima diretta da Eva Neklyaeva e Lisa Giardino- in cui uno dei segni riconoscibili è la realizzazione di opere-habitat, installazioni (performative e non) da abitare con attitudine propriamente estetica: dunque conoscitiva.
MICHELE PASCARELLA
Visto a Santarcangelo Festival l’8 luglio 2017 – info: filoceredi.wixsite.com/meandp, santarcangelofestival.com