GRINGO BOY

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Dan Stuart con Twin Tones (foto di Gerardo Landa)
Dan Stuart conTwin Tones (foto di Gerardo Landa)

Ero appena uscito dal Hospital de Jesús Nazareno di Città del Messico, dove i resti di Hernán Cortés sono stati discretamente nascosti nel templo lì vicino, quando è successo qualcosa che non mi era mai accaduto durante i miei sei anni in Messico: mi hanno chiamato gringo. L’osservazione mi è arrivata da un uomo sdraiato su un basso muretto di tezontle. Voleva dei soldi per comprarsi da mangiare, anche se non sembrava particolarmente povero o affamato. Gli ho risposto gentilmente «No tengo cambio» e ho continuato per la mia strada, ma non ho potuto fare a meno di chiedermi se i risultati delle elezioni americane di qualche settimana prima avessero influenzato la sua scelta delle parole. Quella sera, davanti a birra e noccioline a La Bota, circondato da una magnifica collezione di pacchianeria ispanica, una giovane seria in viso mi si è avvicinata. Voleva sapere perché mai avevo votato per uno che odia i messicani. Por qué asumes que voté por él? Ha alzato le spalle con un sorriso rassegnato. Il mio profilo razziale era appena stato tracciato.

FUGA DA NEW YORK

C’è un detto comune a tutta l’America Latina: tan cortés como un mexicano (gentile come un messicano). È una delle prime cose che ho notato e che ho apprezzato quando sono arrivato a Oaxaca, in fuga da New York, da un matrimonio andato a rotoli e da uno stato psicologico a pezzi. Definirei la mia prima sera el grito, accolto da sorrisi e mezcal nell’affollato zócalo. Sono stato poi ipnotizzato da un altissimo castillo di fuochi d’artificio roteanti che spargevano cenere sopra tutti noi come una benedizione.

Il mattino seguente, ad accogliermi c’erano canzoni di buenos días che risuonavano nelle strade a ciottoli di San Felipe del Agua, originariamente un tradizionale pueblo zapoteco, ora invaso dalle case costose di ricchi divorziati, politici e altri tipi meno gradevoli. La zona, posta in una posizione molto alta, domina una delle città coloniali più belle di tutto il Messico. Nei comedores vengono serviti comida corrida economici, ma abbondanti. Le famiglie sollevavano lo sguardo dal piatto di mole con pollo o tlayudas ripieni augurandomi buen provecho. Ho imparato in fretta a fare lo stesso ogni volta che entravo o uscivo da un locale.

A volte, mentre vagavo tra i mercati e tianguis locali, sono stato chiamato güero (biondo) dalle venditrici vivaci e dalla lingua tagliente, ma nessuno mi ha mai chiamato gringo, una parola dalla connotazione peggiore in Messico rispetto al confine settentrionale. Dopo essermi trasferito a Città del Messico, la vita si è fatta più impersonale, come in una qualsiasi megalopoli. Ho però ritrovato il tipico garbo e le maniere della società messicana nelle decine di piccole interazioni che si sperimentano giornalmente. E anche se me la sono fatta scivolare addosso, essere chiamato gringo da un perfetto estraneo, è stato un po’ uno shock. Non importa, sono disposto ad essere il capro espiatorio per la bestia del nord, se questo significa poter restare anche solo un po’ più a lungo. Ojalá.

Ofrenda modeled on Family Cemetery

EL «OTRO» LADO…

In Messico c’è sempre stato un profondo risentimento nei confronti della cosiddetta «America», un termine che fa andare su tutte le furie molti latino americani, perché esclude ogni altro stato al di fuori dei buoni vecchi Stati Uniti. Anche l’espressione «Stati Uniti» è problematica, perché tecnicamente il nome completo del Messico è Estados Unidos Mexicanos. Ho imparato presto a evitare del tutto questa confusione facendo riferimento agli Stati Uniti come a el otro lado, ma non fino a quando mi hanno informato del fatto che l’espressione el norte è troppo vaga, visto che potrebbe essere un luogo qualsiasi a nord di Durango. Questa rabbia latente, trascurata quotidianamente da turisti e diplomatici, è radicata storicamente dalla perdita di metà del territorio per mano dei gringos (rimando la discussione a proposito dell’origine del nome a un’altra occasione) durante la guerra messicano-statunitense che i messicani chiamano La Intervención. Si potrebbe discutere sul fatto che la terra sia stata rubata o data via da quel voltafaccia a una sola gamba di Santa Anna, ma è significativo il fatto che Ulysses Grant, capo di una compagnia di alcolizzati, pensasse che l’invasione militare del Messico fosse una vera vergogna. Il destino manifesto del proprio Paese è il frutto del grave tradimento di qualcun altro. Difficile rimanere imparziali.

Figlio di un immigrato, sono stato un espatriato lungo tutto il corso della mia vita. Sono arrivato alla quarta classe in Svezia e ho festeggiato i 16 anni a Sydney, dove ho imparato a fare surf, ho visto i Radio Birdman e dove tutti giorni a scuola venivo chiamato con soprannomi tipici come yankee. In Svezia mi veniva ricordato settimanalmente del napalm sparso su innocenti, o del massacro dei nativi americani, e onestamente non avevo nessuna risposta migliore di una profonda e lunga vergogna. Poi, diventato adulto, ho passato mesi terribili a Londra e sono passato strafatto dalla Spagna, prima di arrivare finalmente a Oaxaca, e ora a el DF (Distrito Federal, altro modo di connotare Città del Messico, ndt). La mia regola di vita è evitare altri extranjeros come la peste, hanno sempre qualcosa che non va. Emigrato, conosci te stesso.

Ovviamente la lingua è l’elemento chiave, e anche se sono riuscito a cavarmela sia in Australia che nel Regno Unito, la mia varietà di spagnolo è del tipo adatto alla sopravvivenza, nulla di cui andare fieri. Questo mi obbliga a diventare qualcun altro: uno che ascolta, invece di parlare. Capire una conversazione è diverso dal prenderne parte da pari a pari, intervenendo con le battute e i giochi di parole tanto amati dai messicani. Fortunatamente, lo spagnolo messicano è come l’inglese americano: libero, divertente, aperto. Quando ero a Oaxaca mi sono fatto fare un paio di magliette con la scritta por favor corrige mi español, facendo ridere tutti. Quando tu sei l’altro, un po’ di umiltà può fare miracoli.

…LA MISMA MIERDA

Mi sono ambientato ad Oaxaca senza problemi in poche settimane, a differenza degli otto anni che mi ci sono voluti quando ero a New York. Dopo tutto, vengo dal sud-ovest, una zona che non ha mai veramente smesso di essere Messico, sia dal punto di vista culturale che spirituale. Quando, da ragazzo, andavo in giro con la band, dicevamo che tutto quello che si trova ad est del Mississippi era Europa, e disprezzavo profondamente il nord-est, con la sua ignoranza provinciale nelle vesti di snobismo cittadino. In Messico ho potuto leccarmi le ferite in pace, senza qualcuno che mi dicesse che dovevo «andare avanti» o iniziare una nuova vita. Le due costanti tipiche del Messico mi venivano regolarmente riproposte: fe y paciencia. Non ha senso avere un piano definito, flessibilità e improvvisazione sono la base di tutto. Come in Giappone, la gente non dice mai di no, ma piuttosto tal vez, o ahorita, oppure il devastante mañana (domani, ndt). Questa specie di vaghezza fa impazzire alcuni stranieri, ma ci sono anche molti aspetti positivi. Ad esempio, se ti invitano ad una festa è scortese rifiutare, ma non è necessario presentarsi. È successo un casino, la vita si è messa in mezzo, il cane ha la febbre… ma in realtà non è necessario dare nessuna spiegazione. Certo, se si va avanti così un giorno o l’altro gli inviti finiscono, ma la libertà di essere onesti e potere decidere se accettare un invito o meno alleggerisce da ogni tipo di stress e inquietudine e si finisce per fare molte più cose di quando si era legati alla vecchia etichetta WASP (White Anglo-Saxon Protestant, con riferimento alla cultura dei bianchi protestanti, ndt). Non devi fare altro che portare un piccolo regalo, per mostrare che ci tieni.

Come ci si può immaginare, quando dico alla gente che vivo in Messico, mi chiedono di raccontare de La Violencia. Circa 100.000 persone sono morte e altre 25.000 sono scomparse da quando le forze armate, da circa una decina di anni, sono attive all’interno del Paese e, no, non tutte le vittime erano coinvolte nel traffico di droga. L’idea stessa di una distinzione tra traffico narco (che oggi va dalle merci contraffatte alle miniere d’oro) ed establishment politico è assurda: è tutto un arazzo osceno, fatto di soldi e potere. Ma soprattutto, il Messico è una società classista, e si dice che siano ancora 20 le famiglie che controllano il Paese. Molti dei loro nomi si trovano sull’elenco dei miliardari di Forbes. I crimini vengono denunciati raramente, non c’è alcuna fiducia nella polizia o nella magistratura. Lo stato di diritto esiste, ma non viene da el estado. Vige la legge della famiglia, del clan, della colonia, del pueblo, della chiesa, per citarne qualche tipo.

Difficile giudicare tutto questo dalla parte di un gringo ipocrita, se si tiene conto di come il sistema di giustizia penale è stato sovvertito negli Stati Uniti. Certo, ci sono molti governatori messicani che hanno tagliato la corda o si trovano sotto inchiesta, per non parlare dei 43 studenti normalistas di Iguala, seppelliti chissà dove (e dare un’occhiata nella base militare locale?). Ma quanti ladrones di Wall Street sono mai andati in galera? E che dire del palese furto legalizzato nella legge della confisca dei beni, o della crescente criminalizzazione dei neri da un mare all’altro? Nel 2015, gli Stati Uniti hanno registrato una media di una sparatoria al giorno. Per quanto riguarda i cartelli e los politicos, continuano a riciclare miliardi di dollari negli Stati Uniti, come chiunque altro… la misma mierda de siempre.

Zocalo CDMX
Zocalo CDMX

CHE FRETTA C’È?

Come gringo di mezza età che vive da solo a San Felipe, ero visto inizialmente con un misto di pietà e sospetto. Che fossi un pederasta, un pervertito, o peggio ancora, un agente DEA? Tutto è cambiato quando è venuto a trovarmi mio figlio, che all’epoca aveva 12 anni. D’un tratto sono diventato un padre con un guapo hijo que habla español perfecto! La situazione è migliorata ulteriormente dopo la visita di mio padre, avanti negli anni, un australiano no menos! Ero diventato una persona reale, con un padre ed un figlio, e da quel momento, la maggior parte delle conversazioni con vicini di casa, negozianti e simili iniziavano o finivano informandosi su di loro e augurando il meglio ad entrambi.

In Messico, la famiglia è tutto. Non sarò mai un comunero, ma almeno ora ero diventato un vencindado, e se non addirittura protetto, ero almeno visto come un vicino di casa e un amico. Non ho mai fatto una simile esperienza in nessun altro luogo, e persino ora, ai confini del Centro Histórico e de La Merced, in una delle più grandi città del pianeta, non faccio cento passi senza salutare qualcuno o senza fermarmi a fare due chiacchiere con chi conosco solo come il mi vecino. Per chi vive una vita solitaria come la mia, essere accettati in questo modo aiuta a restare connesso con se stessi e con il mondo. Quando un giorno ho fatto fare un grande cartello con la scritta ¡No Use Claxon! e l’ho appeso a un lampione, i miei vicini hanno pensato che fossi un idealista svitato. Il cartello è stato poi rubato, ma ora la gente fischia o, addirittura, urla ai conducenti di smettere di suonare il clacson. Mi piace pensare che il mio gesto idealista abbia contribuito almeno un po’.

Senza dubbio, c’è una lunga tradizioni di artisti che fuggono in Messico per trovare l’ispirazione, salvarsi, o annientarsi. Ambrose Bitter Bierce, il romanziere anarchico B. Traven, il poeta/boxer dadaista Arthur Cravan, il romantico D. H. Lawrence, malato di tubercolosi, il genio inebriato Malcolm Lowry, la coppia bizzarra di quel mammone di Kerouac e Burroughs, colpevole di uxoricidio, solo per citarne alcuni.

Desideroso di fare parte del gruppo, mi sono nominato scrittore e sicuro di me ho scritto una falsa biografia, che poi è stata pubblicata. Ho anche riesumato un nome di battaglia dal mio passato musicale e l’ho utilizzato come un secondo passaporto per confondere e fuggire il pubblico di tutto il mondo. Dopo aver interiorizzato il pensiero per cui sin muerte no hay vida, è sparita in me la paura del futuro e non mi sono più sentito in colpa di nulla, fatta eccezione forse per qualche occasionale postumo di una bella sbornia di mezcal e per le e-mail aggressive inviate la notte precedente.

Ho raccolto guide di viaggio e libri sulla storia messicana da divorare prima di andare a dormire, e quante mattine ho messo un cambio in una busta da zucchero da dieci pesos e sono partito alla scoperta di quello che avevo letto la sera prima! Ciò mi ha portato a folli avventure, come prendere un volo per e da Cancún per poter fare un viaggio di tre giorni in autobus attraverso la Sierra Gorda con destinazione Veracruz, per poi tornare indietro e viaggiare nel Chiapas per una settimana prima di fare ritorno.

Mio figlio e La Española mi mancavano troppo per potere esser felice, ma ero libero dai vincoli di una vita convenzionale che mi aveva consegnato a una stanza con le pareti in gomma nella Staten Island. Lowry diceva che il Messico è «il luogo più lontano da Dio in assoluto, che ospita ogni forma di sofferenza», ma io mi sono convinto del contrario. Ogni giorno accadeva qualcosa di straordinario che non si poteva inseguire come una droga o come un’opportunità di carriera. Avveniva quando meno te lo aspettavi e quando più ne avevi bisogno. Sapevo che Dio non esiste e che Cristo è solo un uomo sopra la media, ma Guadalupe, Juquila, o Soledad, forse erano vere… Al diavolo tutte le sembianze di Tonantzin che affascinano, portano ispirazione e ci proteggono da el mal. Mi sono di nuovo innamorato della vita, ma senza la paura della morte, che arriva anche troppo presto. Rilassati, gringo …cuál es tu prisa?

NUOVO E VECCHIO MONDO

Nato a Tucson, un paese dove le famiglie messicane possono avere nomi come Ronstadt and Prezelski, pensavo di saperne qualcosa sul Messico. Andavamo regolarmente in vacanza a Bahía de Kino e Puerto Peñasco e una volta abbiamo preso un vagone letto nel viaggio per Mazatlán da Nogales per trascorrere le vacanze di Pasqua sulla spiaggia. Quando mio figlio ha visitato il Paese per la prima volta, frequentava i primi anni di scuola e ha avuto la stessa reazione che ho provato io tanti anni prima: il piacere nell’osservare le differenze e, allo stesso tempo, la paura della povertà. Come disse uno dei miei pochi amici gringo di DF sulla base della sua prima esperienza: «Non cè niente di cui avere paura, i poveri non hanno proprio un soldo».

Resta comunque un enorme divario tra il Messico settentrionale e meridionale, tanto grande quasi quanto i due paesi. La cultura del bestiame ha origine a El Bajío, poche ore a nord di Città del Messico. Senz’altro, molti degli usi, delle pratiche e delle abitudini della vita da cowboy vengono dalle culture spagnola e messicana.

Non molto tempo fa, mentre ero in viaggio verso Tucson con quello stesso amico, sono rimasto colpito da quanto Zacatecas e Chihuahua rispecchiavano le nostre fantasie esistenziali del West americano: di sicuro molti dei sogni, delle lotte e degli incubi erano gli stessi. A sud di Durango è tutta un’altra storia: antiche civiltà (Maya, Zapotechi, Mexica) che rivaleggiavano con qualsiasi altra sulla Terra. Nei miei numerosi viaggi in autobus tra DF e Oaxaca osservavo le colline terrazzate di Puebla e pensavo a scene simili nell’Europa meridionale. Ma ai ragazzini a scuola viene mai detto che quello che è stato fatto qui (la prima domesticazione del mais, per citare solo un esempio) è straordinario? Certo, la vita può essere brutale, ma all’incirca nello stesso periodo degli Atzechi, migliaia di persone venivano regolarmente impiccate in Inghilterra ogni anno per reati minori. Nessuno però dipinge la società del tempo come particolarmente barbara o crudele. Basta leggere i primi capitoli del libro di Foucalt Sorvegliare e punire per capire meglio le torture del «vecchio mondo» paragonabili a qualsiasi altra barbarie. Gli Atzechi sono stati sconfitti non perché non possedessero cavalli e acciaio, ma perché i Totonachi e i Tlaxcalteca odiavano i nuovi venuti dal nord e decisero di aiutare gli invasori spagnoli a sconfiggerli. Più tardi, in poco tempo è diventata tutta colpa degli Europei, dei loro germi e della loro cultura, che infettavano prima il corpo e poi la mente, nel caso in cui qualcuno fosse sopravvissuto all’invasione. Da quel momento in poi, il Messico ha dovuto fare i conti con i risultati.

CHI È PIÙ AMERICANO?

Dopo qualche anno ad Oaxaca, mi sono trasferito a Città del Messico per essere più vicino all’aeroporto internazionale e per mettermi in contatto con altri musicisti e artisti, per la maggior parte più giovani di me. Ho fatto un disco con una band che suona ai festival in tutto il mondo. In tutto il mondo, tranne che negli Stati Uniti, grazie ai loro requisiti di Visto, costosi e proibitivi.

L’idea che, a differenza degli Stati Uniti, l’Europa accolga artisti ed intellettuali messicani mi fa andare giù di testa. Aggiungete il fatto che molto del valore del mondo di lingua spagnola, dai suoi poeti e romanzieri ai suoi fotografi e pittori, viene puntualmente ignorato negli Stati Uniti. Si capisce la frustrazione e lo scoraggiamento di molti messicani nella speranza vedersi rispettati come pari. Non passa una settimana dopo che uno straniero ha trascorso del tempo ne el otro lado che non abbia voglia di raccontarmi che conosce il mio Paese, che ha incontrato delle persone davvero gentili che va pazzo per i Cowboy o i Red Sox, per la bistecca di pollo fritta o Seinfeld, ma si chiedono perché il nostro governo perseguiti i messicani che non vogliono altro che lavorare sodo per prendersi cura della propria famiglia.

Le terre del West Virginia e dell’Ohio orientale, ricche di carbone, sono piene di bianchi arrabbiati che si chiedono dove sia finito il lavoro, ma che si rifiutano di emigrare. In La Mixteca e nella Sierra di Oaxaca gli uomini sono completamente spariti, ma per cercare lavoro dovunque ne trovino, spesso a centinaia e centinaia di miglia di distanza. E ora ditemi, chi è più nobile e coraggioso? Chi si comporta più da «americano»?

Il grande intellettuale José Vasconcelos, originario di Oaxa, ha coniato il termine la raza cósmica e senza dubbio ha ragione di pensare che il Messico ha qualcosa di nuovo e trascendente. È qui che stanno avvenendo numerosi esperimenti, sia su larga che su piccola scala, dal punto di vista umano e non solo. Charles Bowden descriveva la violenta Ciudad Juárez «il laboratorio del futuro», espressione allo stesso modo adatta alla più sanguigna Città del Messico, che più tardi è diventata una città moderna, come Berlino o Shanghai, un luogo dove è ancora possibile trovare una scena artistica nel cuore della città e dove tutto è possibile.

Ciò non significa che i chilangos non siano preoccupati perché la burbuja è tanto affollata da esplodere, che quartieri alla moda come Roma e La Condesa si siano imborghesiti come in ogni altro luogo, e che uno oggi deve pagare la protezione di estranei per poter portare avanti i propri affari. Eppure i social media sono diventati un grande strumento di uguaglianza, con i giovani e le ricche ladies de Polanco derisi quotidianamente da video diventati virali a causa del loro atteggiamento aggressivo nei confronti di chi considerano di classe inferiore.

Giovani güeyes coperti di piercing e tatuaggi, moderni Tin-Tan, magliette del Che, tizi che passano con i figli nella fascia porta bimbo o nei passeggini: qualcosa di impensabile appena dieci anni fa. Le donne messicane, sull’esempio di Sor Juana e Frida, cominciano a trovare la propria voce ed il coraggio di affrontare l’oppressione paterna radicata, spesso mettendosi a rischio, visti i casi di femminicidio ancora numerosi, in modo particolare nelle zone di campagna.

I miei amici messicani credono che sia pazzo ad essere così ottimista nei confronti del loro Paese, ma non posso farci niente. Vedo crescere una nuova meritocrazia, poco a poco, nonostante gli oligarchi ce la mettano tutta per mandare avanti la vecchia élite. Quando sono a «casa» provo il sentimento inverso: il secolo americano ha nelle mani un forcale arrugginito, ma io sogno ancora di un nuovo siglo de las americas nel quale noi gringo possiamo assumere un ruolo significativo, ma questa volta con l’umorismo, la cordialità e l’umiltà tipica di… beh, sì, di un messicano.

Charras in DF
Charras in DF

IL MESSICO? SONO LE PERSONE…

Dopo le elezioni, ho chiesto ad alcuni amici messicani come la pensassero e se fosse cambiato qualcosa. Diego ha 32 anni ed è proprietario di un locale all’ultimo grido dove vende hamburger. Pensa che i gringo siano bambini viziati che sono sempre vissuti sotto una campana di vetro e che «no tienen cultura, Hollywood no es una cultura». Diventerà presto padre, e sogna di poter lasciare l’insicurezza politica e la straziante realtà economica del Messico (il prezzo della benzina è appena salito del 20%), ma non ha intenzione di iniziare una vita negli Stati Uniti, nemmeno con l’aiuto della famiglia di Los Angeles e del Minnesota. Piuttosto parla di Europa o Canada, ma quando gli chiedo se è felice sorride e risponde: «Por supuesto» (naturalmente, ndt). Questa risposta non è rara. Il Messico ha un «indice di felicità» molto alto nonostante tutti i problemi endemici.

Blanca, una volta pensionata si è stabilita ad Oaxaca, dopo essere vissuta in Germania e negli Stati Uniti. Il suo punto di vista è più ampio. «Ho sempre fatto una distinzione tra le due cose. Il Messico è sempre stato vittima della politica estera del governo degli Stati Uniti, indipendentemente dal Presidente in carica. Per quanto riguarda la gente, preferisco farmi un parere a livello personale, e la maggior parte delle volte è positivo». Anche questa è una risposta che si incontra spesso: «Tu mi piaci gringo, è il tuo governo il problema».

Javier è un pluripremiato book designer, insegnante di disegno grafico all’università, e va ancora più a fondo. «Pensiamo che siete dei bulli, ma tutto sommato i gringo ci stanno simpatici. Non siamo un popolo razzista nei confronti degli stranieri, di quelli bianchi. Questo è il malinchismo. Tendiamo ad essere razzisti con la nostra gente».

Gli ho chiesto cos’è che i gringo non capiscono dei messicani. «La nostra inclinazione a capire o prevedere catastrofi, la fede innata nel soprannaturale come qualcosa di reale che accade veramente. Questo è vero per quasi tutti i messicani. El desmadre, il caos. Guarda cosa è successo nei recenti scontri per il caro benzina. Siamo a uno sputo dal caos». Sposato e con un figlio piccolo, anche Javier sogna di altri luoghi, ma lasciandomi mi ha detto: «Sono ottimista, il Messico sono le persone, la familia, e niente è più forte de la familia mexicana. È un vincolo che dura da secoli. Quando sei in una familia mexicana, sai di essere al sicuro. Ho sempre pensato che in Messico la vera tragedia è quella di essere orfano».

E questo sarei io, un orfano messicano-statunitense di prima generazione che non ha dovuto sbattersi. Ma non è una tragedia. Mi familia è il Paese stesso, un’oscurità misteriosa e una luce pensosa per sempre intrecciate. Mi dico che quest’anno riuscirò finalmente a imparare bene la lingua, a scommettere sull’amore ancora una volta, e cavolo, magari mi prendo una fisarmonica e ci spremo fuori anche un paio di note. In ogni caso posso continuare così, ad essere un gringo chilango che si nasconde dietro le frontiere reali ed immaginarie, una máscara para cada ocasión. Ho imparato che la realtà esiste solo al plurale, che nulla può fermare l’amore di una madre o la vendetta di un padre, che siamo tutti fottuti, ma che no pasa nada. Questo è il Paese dove voglio essere seppellito… il che costa meno di farsi cremare, ci credereste? Avanti, los muertos, che ne dite di una calendita, mezcal gratis per tutti? Se non vi va, posso capirlo, ci si vede ne el otro lado amigo, ma non c’è fretta, ci arriveremo tutti anche troppo presto.

di DAN STUART
traduzione di Maria Caterina Minardi, studioin3.com

Dan Stuart, ex leader dei mitici Green on Red, ora lavora come solista. Nella foto è ritratto con i Twin Tones, la band messicana con il quale ha registrato l’ultimo album Marlowe’s Revenge (Fluff and Gravy Records, 2016). Il 13 maggio sarà in concerto al teatro comunale di Dozza imolese (ore 21).