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Il Teatro Comunale di Bologna non è nuovo a far incontrare i grandi capolavori della Tradizione con le visioni e le inquietudini di grandi nomi della scena contemporanea. Basti ricordare, due esempi fra molti, il Parsifal di Richard Wagner diretto da Romeo Castellucci nel 2014 e, l’anno dopo, Die Zauberflöte – Il flauto magico di Wolfgang Amadeus Mozart nel visionario allestimento di Fanny & Alexander: coraggiose e al contempo rigorose aperture al nuovo, segno di lungimirante intelligenza.
Con il miglior stato d’animo, dunque, ci siamo recati a Bologna in occasione del debutto italiano di El amor brujo di Manuel de Falla, allestito da Carlus Padrissa de La Fura dels Baus.
Ne siamo usciti interdetti.
Lo spettacolo (coproduzione del Teatro Comunale di Bologna, del Festival Internacional de Música y Danza de Granada, del Festival Castell de Peralada, del Theatro Municipal de la Opera de São Paulo, del Teatros del Canal e del Grupo Secuoya) è stato caratterizzato da alcune sciatterie francamente inaccettabili in una produzione così imponente. La mancanza di quinte ha reso visibili al pubblico una serie di passaggi “di servizio” decisamente disturbanti: danzatori e personale del teatro in transito, porte che danno su corridoi e camerini che si aprono facendo entrare luce, macchinisti che si fanno cenni mentre spostano la grande scenografia rotante e basculante al centro del palcoscenico. E ancora: fari che arrivano a illuminare i cantanti e i danzatori un attimo prima, o dopo, il momento giusto, microfoni che per qualche momento non funzionano: dettagli, certo, ma che in una produzione di questo tipo saltano, letteralmente, agli occhi.
A proposito di occhi: la scena di Padrissa propone la connotazione simbolico-illusionistica peculiare del Barocco, e di quell’epoca mantiene la tensione alla meraviglia. El amor brujo è uno «spettacolo-fantasmagoria», per dirla con Ėjzenštejn, prodigo di sorprese visive: la macchina produttiva lo consente.
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Dal punto di vista coreografico, Pol Jiménez ha optato per un intreccio di stili diversi: flamenco, certo, ma anche passaggi che evocano il ballet d’action e lo stile neoclassico, con arti e schiene che si protendono e si inarcano a comporre un insieme decisamente espressivo.
La medesima carica comunicativa connota la “cantaora” sevillana Esperanza Fernandez e tutti gli altri dediti e capaci interpreti e musicisti.
Su tutto, letteralmente, una quantità di video-proiezioni afferenti a mondi affatto diversi: difficile cogliere il nesso fra questi materiali filmici così eterogenei.
Quel che è peggio: questa “confusione” non pare essere una precisa volontà registica (diversamente da molte esperienze del contemporaneo, nelle quali l’intreccio di stili e riferimenti diversi, così come il mescolare l’illusione della scena con la “cruda realtà” del fuori-scena, persegue un intenzionale spaesamento dello spettatore).
Frammentazione, incompiutezza, discontinuità, simultaneità, sospensione del senso, opacizzazione dei segni: questi e altri sono i dispositivi post-drammatici (Hans-Thies Lehmann docet), che però paiono non appartenere intenzionalmente a Carlus Padrissa de La Fura dels Baus.
A tal proposito: la Compagnia catalana dal 1979 propone azioni estreme, quasi esclusivamente in spazi non teatrali, volte a provocare lo shock emotivo del pubblico, costantemente coinvolto. Sono da sempre «un gruppo da centro sociale», come ha efficacemente sintetizzato una nostra amica.
In questo caso, purtroppo, hanno di fatto disinnescato una vicenda potenzialmente ricca di possibilità: una gitana di nome Candela è stata abbandonata da poco da un uomo che credeva la amasse, così si rivolge ad una strega affinché le prepari un filtro d’amore per far tornare il suo uomo da lei; si reca presso l’antro di questa strega ma lo trova vuoto, così si improvvisa strega lei stessa ed il sortilegio riesce. L’uomo che l’aveva tradita appare d’un tratto nell’antro, non la riconosce, la scambia per la strega e ne ha paura. Candela lo avverte di aver lanciato da poco una maledizione su di lui che potrà essere spezzata solo tornando dalla sua precedente donna. L’uomo, che ha terrore della strega, promette che farà così, poi riconosce Candela, ma ormai il sortilegio ha funzionato ed egli non può più fare a meno di lei che ormai lo ha in pugno.
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Per concludere: la messinscena di Carlus Padrissa ottiene due effetti negativi.
Il primo, molto concreto: si è distratti nella ricezione del suono della vigorosa e al contempo delicata orchestra diretta da Felix Krieger.
Il secondo: si sta nella contingenza di quel contesto, laddove sarebbe auspicabile che Padrissa, de Falla, Candela, i molti corpi in scena e tutti i velluti del Teatro Comunale scomparissero, per lasciare spazio al dolore, alla rabbia e ai tradimenti che accomunano la vicenda di El amor brujo a quella delle persone sedute in platea.
Una bella occasione sprecata. Peccato.
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MICHELE PASCARELLA
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Visto al Teatro Comunale di Bologna il 18 febbraio 2017 – info: comunalebologna.it
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