“I particolari più potenti di un’opera d’arte sono spesso i suoi silenzi” con questa frase di Susan Sontag prende il via quest’anno la terza edizione del Festival Cristallino, partito lo scorso 27 novembre, e che prosegue fino ad aprile 2017, seguendo il nuovo metodo itinerante adottato per questa edizione, che ci porta all’interno degli atelier dei vari artisti partecipanti, scoprendo così diverse zone del territorio romagnolo.
Un festival che non si ferma all’esposizione, ma che promuove la condivisione dell’arte, l’incontro e la miscela tra le diverse forme di creazione, l’arte visiva, la musica, il teatro, e lo spettatore o il visitatore.
Dopo l’inaugurazione nell’atelier di Francesco Bocchini, è in arrivo, il 18 dicembre, una nuova esposizione e per l’occasione abbiamo incontrato le direttrici artistiche Roberta Baldaro e Roberta Bertozzi che ci raccontano cosa è cambiato in Cristallino e come proseguirà.
Dopo due edizioni “stabili” (gli scorsi anni il Festival Cristallino è stato realizzato al MUSAS di Santarcangelo di Romagna) avete deciso di intraprendere quest’anno una via itinerante, in cosa consiste?
Roberta Baldaro:
Andare da un luogo a un altro non è solo tracciare un percorso, significa scoprirlo, perché è l’atto di spostarsi che permette di delineare un paesaggio, quindi di conoscerlo. L’itinerario di Cristallino significa (anche) questo: uscire dagli spazi convenzionali dell’arte e attraversare la geografia fisica, quella concreta, per inventarne una mentale, tanto fantastica quanto tangibile.
Dopo aver abitato gli spazi museali, Cristallino ne esce e ripercorre a ritroso la strada che compie un’opera d’arte prima di entrare nel luogo predisposto. Questa strada conduce sino al punto d’origine dell’opera stessa, l’atelier, nelle periferie urbane o tra campi coltivati, immersi nella nebbia o in paesaggi assolati, spazi ampi e stipati oppure angusti e bastevoli.
Marc Augé scriveva che “ogni paesaggio esiste solo per lo sguardo che lo scopre” e così, attraverso lo sguardo di Cristallino In-Studio, scopriamo un territorio costellato da riferimenti non solo brillanti ma anche generosi, che restituiscono una mappatura del linguaggio creativo.
Le mostre prendono vita all’interno degli atelier, i luoghi in cui in genere le opere sono visibili ai soli artisti che le creano, cosa cambia nella struttura del Festival? E come è stato percepito questo cambiamento dal pubblico dei visitatori?
Roberta Baldaro:
Invitare il pubblico in un atelier d’artista significa accoglierlo dentro uno spazio pudico, in un’intercapedine solitamente nota a pochi intimi amici, collezionisti e critici. L’atelier è uno spazio spesso inadatto al pubblico, è un luogo impulsivo e indipendente, senza convenevoli, finalizzato più alla solitudine che all’accoglienza.
Il pubblico, una volta entrato, si accorge subito dell’aspetto confidenziale della visita e, forse solo allora, si rende conto di avere un’opportunità unica. Il visitatore diventa un ospite d’onore occasionale che si aggira consapevole, quindi rispettoso, dentro al luogo creativo sperimentando una sorta di appartenenza, fatta di appunti, libri ammassati, strumenti sconosciuti, oggetti apparentemente fuori posto, che gli si mostrano senza filtri, vetrine o faretti.
Nel vostro manifesto di intenti parlate della volontà di creare un “cantiere diffuso”, in cosa consiste?
Roberta Bertozzi:
È una prospettiva che ci si è rivelata proprio in itinere, nel farsi del progetto. Cioè l’idea che accanto al “museo diffuso”, al deposito storico e culturale che si ramifica nel nostro paese, si trovi un “cantiere diffuso”, una miriade di esperienze artistiche che abitano dei precisi luoghi e che in questi luoghi operano per la creazione di nuovi linguaggi. Potremmo vederli come due binari concomitanti che sarebbe importante mettere in relazione. Perché la nostra tradizione, il “museo diffuso”, rischia di diventare lettera morta se non viene sollecitata, ripensata, interrogata – non solo dal punto di vista tematico ma anche da quello formale, che è il modo d’essere di una tradizione, la sua capacità di attuare, di rendere sempre attuali, i propri contenuti.
Ecco, il “cantiere diffuso” lavora in questo senso: è una sorta di prolungamento originale di queste premesse e allo stesso tempo si pone in frizione con esse. L’opera degli artisti contemporanei va testimoniata anche nei luoghi dove essa ha origine, sia per dare segno di questa continuità, come di una possibile frattura con la tradizione – consapevoli del fatto che ogni frattura non è altro che un rinnovamento di ciò che ci fonda.
Atelier di Andrea Salvatori ph Massimo Proli
La prossima esposizione prenderà vita quindi sempre in un atelier, quello di Andrea Salvatori, con l’intervento successivo di 80 mesh – la forma del suono, si tratta quindi di un tentativo di interazione tra diverse forme di arte, caratteristica che denoterà tutto il Festival?
Roberta Bertozzi:
Sì, di interazione e aggiungerei anche di corrispondenza. Troppo spesso in ambito artistico si parla di contaminazione dei linguaggi senza che questa prospettiva sia chiaramente definita. Non basta accostare i diversi medium per ottenere una reale commistione degli stessi.
La cosa interessante è che proprio in occasione dell’appuntamento del 18 dicembre, il linguaggio ceramico, quello musivo e quello sonoro, che di base sono tre linguaggi architetturali, tre linguaggi che hanno a che fare primariamente con lo spazio e con le forme che si dispongono nello spazio, entreranno in sinergia, mutando quasi radicalmente il loro codice.
80 mesh, progetto nato da un’idea di CaCo3, Alessio Buttazzoni e Daniele Torcellini, ci offre proprio un esempio di questa trasfigurazione: partendo dal suono, dalle strutture del suono, se ne indagano le potenzialità visive, ossia la sua capacità di creare delle immagini, e tutto questo rispondendo a dei concetti che appartengono originariamente al linguaggio del mosaico.
Ogni disciplina è chiamata così a rovesciare le proprie prerogative, il proprio assetto, a trasformarsi per davvero in qualcosa d’altro.
Queste scelte artistiche sembrano proseguire la ricognizione di innesti tra forme visive e forme sonore avviata sull’ultimo numero della rivista EDEL, di cosa si tratta?
Roberta Bertozzi:
Gli appuntamenti performativi del Festival, che si terranno nei diversi atelier, rappresentano la sperimentazione pratica della riflessione che ha interessato il sesto numero della rivista e ne danno concreta dimostrazione. La questione centrale era: può il suono produrre delle immagini?
In sostanza ci siamo chiesti se ci sia effettivamente una separazione tra arti figurative e arti, per così dire, uditive, o se esse nascano da un’identica matrice. Tant’è che il suono genera delle forme sensibili che possono colpirci esattamente come ci colpisce un’immagine, forse anche in misura maggiore. In genere si attribuisce troppa importanza all’organo della vista, dimenticando che la nostra percezione di un’opera, così come la sua costruzione, è data da un articolato sistema di sensazioni, tra cui stanno appunto anche quelle acustiche.
Domenica 18 dicembre Solarolo (RA), via Benigno Zaccarini 1/3, dalle 17.30, L’irresistibile Kitsch, Andrea Salvatori + Daniele Torcellini + 80 mesh la forma del suono, info: www.cristallino.org, +39 392 5837058
SILVIA MERGIOTTI