,
Tra il pubblico seduto in attesa, una volta spente le luci di sala e focalizzata l’attenzione sul palco che s’illumina, uno spettatore potrebbe domandarsi: “chi è quell’uomo alto, appena entrato in scena in maglietta e pantaloni neri, con un rotolo di nastro da imbianchino in mano?”.
Un altro forse potrebbe dedurre: “dev’essere il tecnico che sta finendo di montare i fari…”.
Un altro ancora invece ha detto (questo l’ho sentito davvero dietro di me, prima dell’inizio): “ma com’è che sono le 15.40 e ancora non cominciano? Se la gente sa che lo spettacolo è alle 15.30 deve arrivare a quell’ora. Non capisco perché nei teatri succede sempre così. Facciano come alla Scala, che si comincia e si chiudono le porte!”.
Poi ho cambiato posto e dunque non so che cosa abbia pensato dello spettacolo quel signore con la voce adirata. Dei piccoli ritardi d’inizio spettacolo non c’è nulla da dire: chi organizza teatro sa bene che non si aspetta per incomodare gli spettatori puntuali. E’ complesso, a volte difficile, a volte eroico, organizzare teatro. Specie se non si è alla Scala e il teatro è in una zona piuttosto periferica di Milano che si può raggiungere solo con una combinazione di metro, di tram e di cammino. D’altra parte, forse, quello spettatore non sarebbe mai arrivato sin qui se lo spettacolo che sta per cominciare non fosse inserito nel fastoso contesto del festival MITO. SettembreMusica.
Tuttavia anche quello spettatore, o forse soprattutto lui, si sarà domandato: “ma perché ora il tecnico delle luci parla al pubblico?”.
E’ il primo degli straniamenti che offre questo lavoro di Kinkaleri dedicato a tradurre per un pubblico di bambini l’impegnativa Madama Butterfly di Giacomo Puccini. E il signore in maglietta e pantaloni neri con il nastro da imbianchino in mano scarnifica il monumento operistico e ce lo presenta nelle poche frasi del prologo: un soldato americano, Pinkerton, si innamora di una donna giapponese, Butterfly; la sposa, ne ha un figlio, ma poi parte per l’America lasciandola sola; torna tre anni dopo con la moglie americana per riprendersi il figlio e tornarsene in America. Butterfly si uccide. Fine.
.
.
Ovviamente, l’uomo vestito di nero non è il tecnico delle luci. Dopo il brevissimo prologo, egli si lascia cadere a terra e comincia ad applicare al pavimento lunghe strisce di quel nastro di carta bianco. Azione che ci rendiamo conto di vedere fin troppo chiaramente, più di quanto la nostra posizione ci consentirebbe: infatti lo schermo posto sul fondo sta rimandando le immagini delle azioni che l’uomo compie per terra: noi vediamo la scena dall’alto, ripresa da una videocamera piazzata sul soffitto.
Così a poco a poco ci accorgiamo che il presunto tecnico sta disegnando, pur se in maniera molto stilizzata ma precisa, l’interno di una casa, un interno giapponese. Appena terminato il disegno l’uomo, continuando a rimanere sdraiato, impugna via via tre sagome a forma di volto: Pinkerton, il console americano e la cameriera di Butterfly; alternandole davanti al proprio viso, mentre si rotola letteralmente sul pavimento, costruisce un dialogo a tre che noi possiamo vedere sullo schermo, riportato in verticale, come vedessimo un film. In realtà, vediamo non solo la ripresa video del dialogo, ma anche un performer che, stando a terra, si volge, rivolge e protende in varie direzioni, prendendo e lasciando le sagome-maschera; e scopriamo inoltre che i suoi movimenti hanno quasi la qualità di una danza: un po’ come quando si vedono certi marionettisti dal di dietro, mentre muovono le loro creature. Ci si offre dunque un doppio livello di visione: il racconto della storia con un linguaggio quasi da teatro di figura, dove per ora assistiamo alla preparazione del matrimonio tra Pinkerton e Butterfly; e la performance del corpo dell’attore impegnato in una ginnastica extraquotidiana tesa alla costruzione di quel dialogo. Fino a quando la prospettiva torna frontale e vediamo l’entrata in scena, cantando, di Butterfly: una giovane e bella cantante giapponese che fa il suo ingresso da destra, con una lentezza quasi da teatro Nō.
.
.
E la musica di Puccini, pur se registrata, con il canto eseguito dal vivo ma microfonato, apre una prima feritoia emotiva nello spettatore. Anche la recitazione del testo e dei dialoghi di Butterfly, resa con un buffo accento giapponese, è quasi da teatro Nō: ieratica, lenta, aggraziata, quasi cantata, accordata al movimento della donna in kimono colorato, e contrasta efficacemente con il dinamismo istrionico del performer. Mi sto accorgendo adesso di quante volte abbia usato finora il “quasi”. Il punto forse è proprio questo: tutto lo spettacolo si potrà leggere, in fondo, come un evento in continuo, delicato equilibrio su quel “quasi”: quasi teatro Nō, quasi teatro di figura, quasi teatro-danza; quasi opera lirica, quasi animazione. Tuttavia la somma dei “quasi” non dà luogo a un prodotto approssimato, o sfuocato: tutt’altro, quello che intravediamo è un limpido disegno drammaturgico-registico, dove tutto gode di un equilibrio sorprendente. Anche il momento del ”coinvolgimento del pubblico”, tipico procedimento di rottura dell’illusione scenica per cui a volte nel teatro ragazzi si può vedere l‘attore rivolgersi direttamente agli spettatori alla ricerca di un volontario che prenda temporaneamente parte all’azione (espediente che non sempre è ben giustificato drammaturgicamente) qui risulta giusto, pertinente, efficace. La chiave del doppio registro visivo dell’azione – quando è seguita direttamente sul palco o è ripresa sullo schermo di fondo – si mantiene per tutto il corso dello spettacolo e produce un amalgama caratteristico e coerente: così il disegno dell’interno giapponese lascia il posto a quello di un giardino con albero-pagoda-fiumicello-ponte; fino a quel finale, dove i due piani visivi entrano in cortocircuito, nel quale vediamo spuntare a Butterfly un paio d’ali di farfalla quando il performer, manovrando delle grandi ali di carta in senso orizzontale, parallelamente al palco, fa in modo di proiettare, sullo schermo di fondo, quelle stesse ali ora volte in senso verticale: così che noi le vediamo collocarsi, correttamente, sulle spalle della cantante in piedi davanti allo schermo: ed è un momento struggente, dopo lo stilizzato harakiri della protagonista.
,
FRANCO ACQUAVIVA
.
Visto domenica 18 settembre al Teatro di Vetro di Milano nell’ambito di MiTo SettembreMusica
,