Toquinho, acquarello brasiliano fra voglia e pazzia!

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Come non volergli bene a Gianni Minà – già, nella bella televisione che faceva a cavallo fra anni Settanta e Ottanta portava al grande pubblico il meglio della cultura contemporanea di quell’epoca. E se uno come Toquinho in Italia non è stato dimenticato lo si deve proprio a quella bella televisione, come prova il gran pienone visto in questa occasione al Teatro degli Arcimboldi di Milano nell’ambito dell’ottima rassegna MiTo, oramai un classico del Settembre meneghino. Certo, i suoi momenti con Vinícius de Moraes, con Chico Buarque e con Ornella Vanoni oppure dischi straccia-classifiche come Acquarello (1983) contano, ma siamo pronti a scommette che il perpetuarlo via tubo catodico abbia contato ancora di più.

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Non ha più i capelli fluenti e corvini, il baffo non è più quello impenitente che possiamo scommettere abbia spezzato mille cuori di femmina e, anzi, proprio non c’è più – ma Toquinho è sempre un bell’uomo anche a settanta e passa anni, con la chitarra al collo che come la suona lui, adepto dei Roberto Menescal dei João Gilberto dei Baden Powell, la suonano in pochi, con quello stile sospeso fra bossa nova, pop d’alta classe e vero jamming. Arriva, risata contagiosa che prende tutti e capisci subito che il Maestro è ancora più affinato dall’esperienza, peraltro supportata da una band davvero di primissimo livello: con lui la capo orchestra Ophélie Gaillard (violoncello), Gabriel Sivak (pianoforte), Juanjo Mosalini (bandoneón), Romain Lecuyer (contrabbasso, chitarra) Rubens Celso e Florent Jodelet (gli ultimi due entrambi alle percussioni). Con tutti loro sul palco, ti chiedi se esista un gioco di rimandi tra le note di Antônio Carlos Jobim e quelle di Hector Villa-Lobos, fra l’Italia dei suoi avi (ricordiamo che Toquinho è figlio di emigranti molisano-calabreso-lombardi) e l’argentina del tango di Astor Piazzolla – sì, pare proprio di sì. Infatti, è quello il programma di una serata divisa per segmenti ma organica nel mostrare le enormi capacità Antonio Pecci Filho, come d’anagrafe, impagabile nel fare lo slalom con intelligenza e grazia fra trascrizioni inedite e sicuri successi.

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L’attacco è del solo gruppo guidato da Ophélie Gaillard, ed è subito nel nome del libertango di Astor Piazzolla con il trittico Oblivion, Escualo e Grand Tango che l’ensemble propone con assoluto compimento – cosa che accade anche poco dopo con la concessione alla memoria spagnola di Siete Canciones del repertorio di Manuel de Falla, massimo esponente dell’impressionismo musicale iberico degli anni Dieci e Venti.

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Ecco, quindi, che Toquinho diventa protagonista assoluto con il suo repertorio storico, lui che è sempre stato mezz’interprete e mezz’autore: subito tocca agli albori della bossa con chiari milestone per penna di Jobim quali Corcovado e Chega de saudade (qui l’impagabile testo è di de Morales) – perfetto pane per i denti di Toquinho che con quella musica vi è cresciuto e probabilmente da adolescente vi ha sognato forte – naturalmente Acuarela – l’arrangiamento marcatamente samba jazz è da applausi – la più recente Quem viver, verá, l’altro successone Escravo da alegria, la poesia di Alvorada del sommo Cartola, fino agli amabili diretti saluti all’eterno mentore Vinícius de Moraes («Insieme abbiamo lavorato a qualcosa come centotrenta canzoni», tiene a sottolineare) con Tarde em Itapoã e con Tristeza – il tutto per brividi verdeoro che scrosciano beati.

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Il teatro è caldo ed è pronto anche per volare alto via Villa-Lobos con l’uno-due O canto do cisne negro e Bachiana brasileira #5, composizioni che hanno certamente fatto entrare il Brasile nella contemporaneità del Novecento. E siccome siamo in Italia e Toquinho qui da noi ha un’amica carissima che proprio qualche anno fa lo raggiunse sullo stesso palco («Stasera è a Napoli, è impegnatissima altrimenti mi avrebbe raggiunto»): l’Ornella nazionale, del quale rievoca due brani fra i diversi cui lavorarono insieme anche con Vinícius e Sergio Bardotti a metà anni Settanta, gli stra-conosciuti Io so che ti amerò («Che meraviglioso poeta bugiardo Vinícius – sapete, si è sposato la bellezza di otto volte!») e La voglia la pazzia.

CICO CASARTELLI

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