L’avvertenza è d’obbligo: per avere The Gouster, il disco inedito o quasi di David Bowie del 1974, dovete papparvi per intero il maxi-cofanetto Who Can I Be Now? (1974-1976) di dodici CD che esce in questi giorni, seguito dell’altrettanto monumentale Five Years (1969-1973) (2015) – per il momento non è prevista pubblicazione indipendente al box set, anche se in futuro non è detto che non avvenga. Sempre che non si opti per un download online – a ognuno la propria scelta. Detto ciò, eccoci di fronte a quello che è un disco marcatamente alternativo a Young Americans (1975), del quale si vociferava da anni e che qui viene finalmente ricomposto per offrirlo nella versione più aderente a ciò che l’artista avesse in mente a quell’epoca. Nondimeno, The Gouster ha suscitato subito chiacchiere per il titolo piuttosto misterioso: la nostra ricerca conferma che “gouster” è una parola slang del South Side di Chicago dell’epoca dei gangster anni Venti che indica il tipico vestito gessato con cui abitualmente si vestivano i vari Al Capone e affiliati – e, in effetti, negli anni 1974-75 Bowie era uso vestirsi con appunto i classici completi gessati. Cervellotico, eh?
È il 1974 e David Bowie è in un momento cruciale della propria parabola: ha lasciato alle spalle il cartoon glam Ziggy Stardust & The Spiders From Mars ed è alla ricerca della consacrazione americana, iniziata già pochi mesi prima con Diamond Dogs (1974). Ma è anche il passaggio in cui si ricongiunge al suo vecchio produttore, quel Tony Visconti che venne messo da parte in favore di Ken Scott per l’epoca pre-Ziggy/Ziggy e che già in Dogs era apparso in fase sia di arrangiamento sia di mixaggio. I due sanno che possono usare l’arma del camaleontismo, visto che Bowie da che apparve negli anni Sessanta fino a quel momento ha fatto di tutto: blues, beat, folk, prog, pop, glam e chi più ne ha più ne cacci dentro. La wild card è quella di andare a Philadelphia, allora regno incontrastato del plastic soul e della proto disco music di Gamble & Huff, e piantarsi ai leggendari Sigma Sound Studios finché non ne esca della musica che sia degna degli intenti prefissati. Peraltro, è proprio lì che il giovane e allora sconosciuto Bruce Springsteen andò a trovare David Bowie saputo che costui aveva da poco inciso un paio di suoi brani (Growin’ Up e It’s Hard To Be A Saint In The City)
Naturalmente, il non ancora Duca Bianco (per quello bisogna attendere il 1976 con Station To Station e il film L’uomo che cadde sulla Terra) si trova in un suo personale periodo piuttosto instabile, fra consumo smodato di droga e vita amorosa confusa dovuta l’inizio della relazione con Ava Cherry nonché parallelo allontanamento dalla moglie Angie. Tanto fa, perché musicalmente le idee sono chiare – anzi, per esempio, è proprio ai Sigma Sound Studios che Bowie conosce Carlos Alomar, chitarrista di origine portoricana il quale diverrà uno dei punti fissi o quasi della sua musica per i decenni a venire. Oltre ad Alomar, peraltro, altri elementi chiave del progetto sono la futura star della black music Luther Vandross, chiamato ad arrangiare le parti vocali, e il produttore Harry Maslin. Da tutto questo ne uscirà lo schianta classifiche Young Americans, pubblicato nel Marzo 1975, che grazie a singoli Fame, in duetto con John Lennon, e lo stessa tema guida porterà finalmente all’agognato definitivo break through in terra yankee. Prima, però, vi è The Gouster.
L’ascolto dell’album mette in chiaro che siamo ben più in là dello stadio demo, anche perché un paio di episodi finiranno nel disco pubblicato all’epoca, ma non è ancora quanto David Bowie vuole – è già il plastic soul a vele spiegate che si ascolterà poi in Young Americans ma l’effetto generale è più ad ampio raggio, potremmo dire espansivo. Tutto ha ancora una piega in divenire, work in progress e con passaggi che concettualmente sembrano davvero jazz, specie per come Bowie canta quasi in cerca di una nuova, più definita personalità. Subito l’attacco con i sette minuti di John, I’m Only Dancing (Again), rifacimento di un singolo uscito nel 1973 inciso durante le sessions di Aladdin Sane, qui in versione pubblicata poi solo nel 1979 altrettanto in un singolo con durata dimezzata: la band tende alla disco-funk e David canta spesso in falsetto, e subito capisci che sei in mezzo a note fra le più belle storia del rock. Somebody Up There Likes Me è la stessa di Young Americans e rimane un gran bel numero di quelli sexy e sinuosi che solo l’ex Ziggy sapeva sfoderare. Bowie-ani incalliti a parte, It’s Gonna Be Me probabilmente sfuggì ai più quando uscì nell’edizione deluxe di Y.A. nel 2007: male, molto male – perché questo è davvero il pezzo standout di The Gouster, perfetto blues con magnifiche scie soul e con una performance vocale di vero jazz che solo un fuoriclasse così poteva permettersi. Pure Who Can I Be Now? era nell’edizione deluxe: plastic gospel che, ancora, è roba grossa – uno di quei pezzi che Visconti si lamentava di come possibile fossero rimasti fuori Y.A. in favore, per esempio, della vituperata cover dei Beatles Across The Universe. Sì sa, se si lavora per un grande artista si esegue e basta – ma qualche insoddisfazione rimane.
Ancora su registri di eccezionalità è Can You Hear Me?, più rarefatta rispetto a quella che conoscevamo apparsa in Young Americans: pianistica, Bowie che al canto si supera e un sottile erotismo che pervade tutto senza che si possa evitare d’essere fatalmente sedotti. Young Americans è pressoché la stessa versione dell’omonimo disco (anche se il mix ci sembra leggermente diverso, come siamo pronti a scommettere): ed è, naturalmente, uno dei grandissimi pezzi di Bowie un po’ per tutto – per performance per testo per musica per atmosfera per sottile citazione di A Day In The Life dei Beatles – di quelle cose che puoi ascoltare migliaia di volte e mai stancarsi di farlo. Chiude l’esperienza The Gouster la sempre magnifica Right: rispetto a Young Americans Bowie qui la butta molto sul falsetto e l’appoggio di un marcatissimo back up vocal tutto al femminile – e il risultato è di morbida concupiscenza.
CICO CASARTELLI
DAVID BOWIE – The Gouster (Parlophone)