Quasi sessant’anni di musica come professionista, icona assoluta della musica della musica di New Orleans e ben oltre, un’infinita serie di esperienze che i comuni mortali non possono nemmeno immaginare («Ho conosciuto Ray Charles a diciannove anni, quando ero in tour con Larry Williams – fu a New York, nella sua stanza d’albergo: entro e vedo che i due che sono lì a preparare delle dosi di eroina»), una voce d’angelo che però ha dentro il timbro del Diavolo – in poche parole, ci vuole poco per rimanere incantati dalla vera regalità di Aaron Neville, che accanto alla carriera con i Neville Brothers ne ha una in proprio, frastagliata ma per larghe parti di grande pregio. E adesso, giunto ai fatidici 3/4 di secolo, è qualche anno che sembra voler chiudere con il botto: Apache è il terzo capitolo di una, finora, trilogia che è iniziata con I Know I’ve Been Changed (2010), prodotto da Joe Henry, e proseguita con My True Story (2013), prodotto da un bel pezzo di Stones quali Keith Richards Don Was – trilogia che davvero sembra essere l’assioma del riportare tutto a casa.
Se il primo capitolo è servito a riunirlo con lo Allen Toussaint, squisito pianista di tutta la session nonché suo vecchio talent scout e songwriter (un capolavoro su tutti: Hercules), mentre il secondo lo ha riportato a contatto con il soul originale (i Drifters in primis, ma non solo), Apache allarga lo spettro e unisce la vecchia e la nuova New Orleans: Aaron, con l’aiuto di Dave Gutter (Rustic Overtones) e di Eric Krasno (Soulive, Lettuce, Tedeschi Trucks Band), quest’ultimo anche produttore, scrive praticamente tutti numeri del lotto, fortissimi nell’unire perfetta qualità che sa tanto di cosiddetto soul consapevole tipo Temptations e Curtis Mayfield nonché testi i quali sono decisamente uno scatto d’orgoglio black che non se ne frega della difficile condizione in cui versano molti suoi fratelli fra New Orleans e i tanti ghetti dell’Unione. Aaron, poi, lo spiega bene nelle note d’accompagnamento: «Scrivo di continuo quelle che io considero essere delle poesie – qui ne ho selezionate un po’ da cantare». Giurateci: come canta lui, cantano in pochi – forse nessuno fra i vivi.
Basta prendere il pezzo scelto come singolo del lavoro, Stompin’ Ground: Neville in cinque minuti racconta la sua vita nella Big Easy fra spacciatori, voodoo, vecchi amici sempre in pista (quando sentite il nome di Mac Rebennack, sì, trattasi di Dr. John!), parenti – in sostanza, come dice l’autore stesso, «più che un pezzo, è una testimonianza». Ma è tutto Apache che gira a mille, perfetta essenza di un musicista con talento smisurato ma soprattutto non frutto di oculato marketing discografico bensì di una cultura molto radicata. Il resto sono pezzi dal tiro funk facile al contagio come Ain’t Gonna Judge You, Orchid In The Storm oppure Fragile World dove si coglie anche un particolare ben preciso: il falsetto che ha reso celebre Aaron è molto contenuto, usato con parsimonia in favore di toni medi che evitano certe ripetute cadute nello stucchevole, specie quelle di alcuni suoi dischi anni Novanta/primi Duemila. A voler scegliere fra gli undici numeri-meraviglia, più di tutti piedino e orecchie cedono facile alla seduzione imposta con Be Your Man: puro Motown sulle ali dei Temptations che ti prende per mano e stacca il volo con fiati turbo, hammond a lastricare tutto, wha-wha ovunque e mister Aaron Neville che fra ugola e presenza sa di essere un fuoriclasse, punto. Per il resto, non fatevi sfuggire quest’album semplicemente incantevole beginning to end.
CICO CASARTELLI
AARON NEVILLE – Apache (Tell It Records)