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La programmazione coreutica del Festival Inequilibrio 2016 (a cura di Angela Fumarola) ha accolto, tra l’altro, tre opere di artisti di base in Israele. Spettacoli affatto difformi per stilemi e capacità di sintesi, due dei quali presentati in prima nazionale.
In origine fu la Batsheva: è nella mitica Compagnia di danza israeliana (in scena il 6 luglio scorso al Ravenna Festival: i curiosi rileggano la nostra recensione) che Liat Waysbort e Idan Sharabi hanno iniziato, o consolidato, il proprio percorso.
A Inequilibrio la coreografa Liat Waysbort ha presentato Please me please, progetto in forma di dittico composto da un assolo e da un duetto che attraversa il tema della seduzione attiva e passiva e, più in generale, il bisogno/tentativo di piacere.
In The Solo l’atletico danzatore Ivan Ugrin «si trasforma in maniera stupefacente da uomo a donna, da oggetto desiderato a soggetto desiderante, da ballerina a pornostar, con un unico obiettivo: quello di piacere al pubblico. Un viaggio attraverso gli estremi dell’immaginario in costante dialogo con lo spettatore, che dal piacere al disgusto segue la trasformazione di questo corpo maschile». Nell’arco di circa 25 minuti la performance propone una quantità di sinuose citazioni di stampo neoclassico, una danza dimostrativa e a tratti ironica, zeppa di riccioli ed esplicite allusioni sessuali.
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In The Duet, invece, Amy Gale and Angela Linssen (danzatrici di età compresa fra i 60 e i 66 anni) «vorrebbero essere apprezzate per le qualità invece che per l’età, purtroppo si trovano a confrontarsi con degli standard a cui le anziane donne devono corrispondere». Lo spettacolo rimanda a un immaginario pop à la Jérôme Bel, intriso di musica ritmata e coreografie minimali, piccole corse e asciutte immobilità, misurazioni del corpo altro e grafie nello spazio, passaggi simbolici e brandelli di testo in diverse lingue, sequenze di contact e riferimenti meta-coreutici.
Now è il titolo dell’ammiccante improvvisazione proposta dai divertiti Idan Sharabi, Nicholas Ventura e Niv Marinberg, una calda creazione estemporanea decisamente espressiva che ha ricevuto grande apprezzamento da parte del pubblico presente.
Al di là di ogni valutazione personale, probabilmente di nessun interesse, è forse possibile far emergere da questi tre lavori una comune interrogazione allo sguardo, e dunque all’esperienza, dello spettatore.
Ammiccare. Come suggerisce il vocabolario Treccani l’etimologia di questo verbo rimanda al latino micare, «palpitare», mentre il significato corrente, come è noto, riguarda il «fare cenni di nascosto, per lo più strizzando un occhio; lanciare segnali allusivi per attirare l’interesse»: da qualcosa che accade dentro il corpo a qualcosa che avviene al di fuori di esso, che si sostanzia unicamente nella relazione con l’altro.
È una estroflessione (detto altrimenti, una pre-occupazione comunicativa) che caratterizza, con maggior o minor rigore, tutte e tre queste proposizioni (e, si potrebbe forse aggiungere, quasi tutte le relazioni interpersonali).
Il fatto che i tre lavori visti a Inequilibrio Festival facciano di questo scivoloso elemento il tema esplicito (nel caso di Liat Waysbort) o il modus operandi (per Idan Sharabi) ha il non irrilevante merito di ricordarlo con efficace esattezza.
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Parimenti, questi spettacoli aiutano a far emergere (o a consolidare?) un clichè duro a morire: l’idea che l’artista sia una figura speciale, diversa dalla maggioranza degli esseri umani. È un modo di sentire che si fonda soprattutto sull’ammirazione che suscita l’abilità in tutte le sue manifestazioni. Ne è un esempio il fiorire di stereotipi, aneddoti esagerati, favolosi e spesso assolutamente inverosimili che circondano le biografie degli artisti: essi sono addirittura arrivati, con la pubblicazione de Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani di Giorgio Vasari nel 1550, a formare un genere letterario specifico. Storia della letteratura a parte, l’idea di artista come depositario di téchne spesso permane nel sentire comune come principale, se non unico, metro di giudizio sulle opere che si ha l’occasione di incontrare.
Siccome non c’è nulla che possa essere dato (o letto) al di fuori del proprio tempo e del proprio contesto, va detto che la concezione che questi lavori incarnano stride e collide con un immaginario pin up da «Società dello spettacolo» dalla quale tutti, che lo si voglia o meno, si è in parte condizionati: ciò appare particolarmente intenzionale in Please me please – The Duet, per il portato di clichè da cui trae origine.
Il carattere improvvisativo del lavoro di Sharabi, infine, mette al centro la questione del tempo, elemento costitutivo di ogni arte performativa: stando per un po’ con Friedrich Nietzsche si potrebbe affermare che «ogni momento vale non per quello che seguirà o si prevede che segua, ma di per sé». Il tempo come autosufficienza dell’istante assume una dimensione sacrale: è l’atto, la vita stessa nella sua pienezza. O, si potrebbe dire usando un linguaggio appunto nietzschiano, il dionisiaco.
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MICHELE PASCARELLA
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Visti al Festival Inequilibrio di Castiglioncello (LI) l’8 e il 9 luglio 2016 – info: armunia.eu
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