È capitato un po’ troppo spesso negli ultimi vent’anni, quelli del ritorno, che Patti Smith si facesse tirare per la giacca, che facesse sempre il bel soprammobile delle “cause giuste”, che la “gente ha la forza” (ah, le parole di una canzone… quanta illusione!), che Bono Vox quasi l’avesse inventato lei – non stasera, perché stasera, in double bill con PJ Harvey, al Festival di Montreux è rock and roll di quello che spazza via accuse e pregiudizi: la splendida strega in bianco e nero di Horses è sul palco e non fa il monumento a se stessa. E non fa nemmeno prigionieri.
Visto che ci piace giocare con l’elastico spazio-tempo, partiamo dal finale, di quelli che «Dio è morto per i peccati di qualcuno ma non i miei»: Horses in medley con Gloria dei Them di Van Morrison è devastante e puro in excelsis Deo, dossologia maggiore che vien fuori dritta delle viscere della terra per piantarsi nello stomaco dei presenti. Patti quest’anno farà settant’anni – in pratica la mamma che tutti i quarantenni vorrebbero! Horses/Gloria, però, è solo il dolce: il concerto è una cannibalizzazione di se stessa che ha pochi eguali, ossia Patti Smith molto populista ma anche tremendamente unica nel giocare le proprie solite tre carte.
Il set è dosato che è una meraviglia, iniziando dalla Signora che arriva, applausi a prescindere, si infila gli occhiali e inizia a leggere Footnote To Howl di Allen Ginsberg: silenzio che si taglia con un coltello mentre Patti narra di «cazzi e buchi del culo sacri». La band che l’attornia è di quelle solide con gli storici Lenny Kaye (chitarra), Tony Shanahan (basso, tastiere) e Jay Dee Daugherty (batteria) nonché il figlio Jackson Smith (chitarra) e la sorpresa Andy Yok (chitarra – chi se lo ricorda per molti anni accanto a John Mellencamp?), e già con Dancing Barefoot, Frederick – espressamente dedicata al nipotino, che porta il nome del nonno defunto Fred Sonic Smith – e Ghost Dance si capisce che tutto gira bene: ossia, non saranno i leggendari concerti di Bologna e di Firenze del 1979, ma la dignità qui è di granito. Il colpo sotto la cintura, nel senso buono dell’espressione, arriva con l’omaggio a Prince: When Doves Cry è molto più bella e maestosa di quella presente nell’antologia Land (2002), forse perché allora Rogers Nelson non se ne era ancora andato mentre qui vi è tutta l’emozione per un artista più che unico, irripetibile. L’Auditorium Stravinsky freme – e pure molto. La tensione resta alta con Ain’t It Strange e soprattutto con la potentissima Summer Cannibals, che anticipa un altro colpo di puro KO: Lenny Kaye prende la parola e pulito dice «Quest’anno festeggiamo i cinquant’anni della musica più bella e importante nata a New York, quella dei Velvet Underground», dopodiché parte un gran medley Rock & Roll/I’m Waiting For The Man/White Light-White Heat con protagonisti alle voci appunto Lenny e Tony Shanahan. Saranno cover – ma sono grandi cover.
Patti torna sul ring e con Beneath The Southern Cross tocca a un altro momento di vera eccellenza: il pezzo è fra i più belli del “nuovo” repertorio (Gone Again, 1996), viene espressamente dedicato a PJ Harvey (co-star della serata) e vale dieci minuti di magia con tanto di coda psichedelica a ben quattro chitarre, Smith compresa. Pissing In A River, Because The Night e People Have The Power sono ottimi crowd pleaser che incendiano la sala: tutto prevedibile ma accolto magnificamente. Per il resto, facciamo gli auguri a Patti Smith con qualche mese d’anticipo per quella che sarà una data importante – che peraltro voci ufficiose vogliono festeggiata con un nuovo album di inediti. Per il resto, scommettiamo che l’ex Regina del Punk fra dieci-quindici-vent’anni sarà ancora in giro indomita con la stessa grinta di stasera?
CICO CASARTELLI