Black Sabbath, come streghe alle messe nere

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L’enigma è segreto ma è pure chiaro: non si sa come faccia ma Rick Rubin è sempre capace di ridare credibilità a chiunque, specie a chi sembra averla persa per sempre. Pensare che i Black Sabbath potessero tornare insieme – beh, 3/4 di essi, siccome Bill Ward ha sbattuto la porta (ed è un vero peccato!) – senza scadere nel ridicolo sembrava impossibile: invece, Rubin con «il numero della bestia» 13 (2013) li ha presi per mano e condotti laddove il culto iniziò, fra i quattro magnifici album pubblicati nel triennio d’oro 1970-72. Chiaramente 13 non vale Paranoid (1970) e gli altri capolavori del periodo ma nel Nuovo Millennio ne è senza dubbio un degno surrogato, capace di suonare autentico e non pantomima, inaspettata rinascita (o ascensione?) del cadavere Sabbath.

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Senza colpo ferire, pure dal vivo tutto funziona senza intoppi: i quattro – al posto di Bill Ward c’è Tommy Clufetos, già al servizio di Rob Zombie e appunto di Ozzy Osbourne – sono una macchina da guerra che non fa prigionieri, cosa facile d’intendere per chiunque se dalla tua hai vere bombe atomiche che s’intitolano War PigsParanoidBlack SabbathSnowblindIron ManFairies Wear Boots – ed è un vero peccato che 13 non sia stato evocato, tipo con l’hard-prog God Is Dead o la ballata Zeitgeist, numeri che non sfigurerebbero se piantati in mezzo al repertorio classico. Ma sopratutto Tony Iommi per tutta la performance ha incendiato l’Arena con tuoni e fulmini della sua sei corde che difficilmente si faranno scordare: l’asso era veramente, come si dice, on fire nel dare lustro a un repertorio bollente – tocco secco, sofisticato e tagliente come ci si aspetta da lui. E lo stesso si può dire di Geezer Butler, la mente dietro il gruppo, che con il suo basso assassino ha pompato senza sosta che è un piacere.

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Tutto perfetto, tutti soddisfatti – tranne chi scrive, che avrebbe donato un po’ del proprio sangue per udire St. Vitus Dance e, soprattutto, l’assoluto vertice di tutta l’epopea Sabbath, naturalmente Planet Caravan – eddai, che addio è senza Planet Caravan?! Oppure no, perfidamente, vien di pensare che a essere davvero soddisfatti siano stati in pochi – perché i nerd in formato metal che componevano il pubblico è difficile che abbiano capito cosa gli passava davanti: non un banale gruppo heavy, semmai un sofisticato congegno hard rock, folk revival e cabaret – già, Ozzy Osbourne è un innato grande commediante, oltre che ancora uno spettacolare frontman fornito di una voce sfascia-vetri che pare essere un’enigma come egli abbia saputo preservare così dopo i tanti trouble times che ha passato.

CICO CASARTELLI

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