Certe notti di Davide Reviati

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Vive sempre nel Villaggio Anic, quartiere di Ravenna a cui ha dedicato il suo Morti di sonno, opera in bianco e nero che parla di adolescenza, morte e corse a perdifiato. Venduto in Spagna, Francia e Corea, ottimo per un romanzo grafico italiano, gli ha dato popolarità e premi. Dopo sei anni ha finalmente pubblicato il suo nuovo, molto atteso, lavoro: Sputa tre volte, più di 500 scorrevolissime pagine sempre in bianco e nero, ancora piene di adolescenza e memoria, di ragazzi di periferia bocciati all’ITIS ai tempi in cui c’era ancora lo Slego, di canne fumate in capanni da pesca, di incontri diffidenti con una famiglia Rom, di campi lager per zingari, di ferocia, fragilità e persino di John Wayne. Anche questa è opera eccellente.

Reviati magari è poco prolifico, ha tempi di realizzazione flemmatici, vive appartato ma il suo rigore grafico, la sapienza nel dosare il non dire, e la potenza letteraria del detto lo confermano tra i migliori cartoonist italiani di oggi. Dimenticate però la sovraesposizione alla Zerocalcare. Reviati, preferisce una vita più schiva, si centellina con cura. Nel suo buio appartamento svetta ancora il pannello in cui ha montato i capitoli dell’opera, si avverte una gran mole di lavoro. Sono un po’ intimorito, ma mi aiuta una rivista olandese che ricorda l’appena scomparso Cruyff, già disegnato mirabilmente in Morti di Sonno. Davide disegna e segue ancora il calcio, la cosa me lo rende più vicino e mi serve per sdrammatizzare. Tu giocavi? «Sì, forse fino alla LegaPro ci potevo arrivare, facevo l’ala destra, poi mi misero attaccante e a 23 anni mi sono rotto i legamenti. Tifo Cagliari, essendo mezzo parmense seguo il Parma, ma sono figlio di Gigi Riva. Di quei calciatori lì, alla Scirea, Facchetti, uomini di spessore morale. Non mi piacciono i Cristiano Ronaldo, ci vedo classe, velocità e potenza sì, ma non l’ eleganza di Cruiff».

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Sputa tre volte è bellissimo, ma sei anni per farlo non sono un po’ tanti? «In realtà non sono consecutivi, ho cominciato da un disegno che poi è diventato un mantra. Un bambino sul dorso di una pantera, poi, dopo questa immagine più volte rifatta, per quasi due anni non ho fatto nulla».

Nello studio i disegni simili, di pantera con bambino, sono tantissimi, così come le prove per la copertina, più e più volte riprodotta. Ma, scusa, perché ridisegnarla? Non andava bene questa? «Perché sfocio nel patologico. Poi i disegni sembrano uguali ma sono diversi. Intanto il lavoro ha bisogno di riposare, si giudica meglio il giorno dopo. A dire la verità dopo Morti di sonno sono rimasto un bel po’ imbambolato. Il successo mi ha condizionato, non ero preparato, premi in Francia, Belgio. Come dice Pasolini ‘Il successo è sempre una cosa brutta per un uomo’».

Capisco che per un fumettista vincere da quelle parti è come alzare una coppa al Maracanà ma non è che facessi le serate all’Hollywood… «A me basta molto poco. Ho capito cosa diceva Pasolini: quando hai successo diventi automaticamente autoreferenziale. D’improvviso l’ego comincia a mangiarti dentro e cominci ad essere figlio della recensione, vai a vedere cosa dicono di te e dopo ne soffre la tua opera, il tuo lavoro diventa una medaglietta da appendere al petto. Allora ti dici, ‘ma cosa cazzo stai diventando?’. C’ho messo un po’ a fare i conti con questa roba».

Anche l’ultimo libro tra recensioni e vendite è partito bene, devo dire quindi purtroppo? «No, spero che vada bene, ma non voglio rifinire in quel gorgo».

Com’è la vita di un fumettista? «Non saprei, sono atipico. Ci sono bravi disegnatori che lavorano per la Bonelli, li apprezzo ma non è quello che cerco. Il mio punto di vista è diverso, parte da come ti approcci all’opera. Anzi, questa non la chiamo neanche una ‘professione’, non ho la coscienza dell’artigiano. Non mi sento professionista in quel senso. Non faccio lo snob, ma non ho la razionalità di molti miei colleghi. Anche perché quando cerco di avere il controllo di quello che faccio divento stucchevole e non funziona. Devo affidarmi all’istinto come quando si scarabocchia senza pensare, calarmi completamente in un flusso. Quando sento dire da un artista che per cantare una canzone di impatto emotivo deve essere distaccato da ciò che racconta, lo capisco ma io ho bisogno del contrario, di esserci dentro. Ti leggo cosa scriveva Parise ‘…per scrivere, per esprimersi, per trovare lo stile senza difficoltà come si trovano le note in un pianoforte è necessario trovarsi in quel particolare stato d’animo non facile da descrivere, che non è necessariamente felice, ma non può e non deve essere assolutamente infelice … una specie di limbo di lieve e diffusa esaltazione, in cui nello stesso tempo ti piace la vita e ne hai nostalgia’. Per dire, lavoro solo di notte, di mattino c’è troppa luce, ho bisogno che cali l’oscurità, le storie per essere raccontate hanno bisogno di zone d’ombra. Devo essere nello stato d’animo in cui la cosa che sto facendo mi affascina. Alla mattina, c’è il sole e non ci sono ambiguità, cosa te ne frega di raccontare una storia? Ti godi il sole. Anzi, io dormo».

Poi squilla un telefono e comincia parlare in dialetto parmense. È sua mamma, ha problemi con il boiler. Sei cresciuto a Ravenna ma hai ancora forti le tue origini. «Sì, anche in Sputa tre volte ho mescolato le mie due patrie, sia topograficamente che nelle espressioni, non volevo identificare un luogo preciso, c’ho messo dentro espressioni ravennati e parmensi, come ‘Gionfare’ tipicamente parmense».

E sei stato veramente bocciato all’ITIS come il protagonista? «Sì, ma non è un racconto autobiografico. Se mi chiedi se le cose che racconto sono reali rispondo di no. Se mi chiedi se quello che c’è nel libro è vero dico sì, perché la verità è un’altra cosa. Non sta nei fatti, nella cronaca, sta da un’altra parte, dove non so, ma è una sorta di ‘autenticità’. Anche i Rom che racconto sono un mischione tra un famiglia di zingari che stava da queste parti e la fantasia, ma è vera la parte di ricerca sul popolo Rom».

Nel fumetto c’è infatti una parte importantissima dedicata sia al Porajmos, il genocidio degli zingari nella II Guerra Mondiale, che alla cultura Rom «Che poi li chiamiamo Rom ma sono tanti popoli: Sinti, Kalè, Jenisch. Non hanno patria, è impossibile inquadrarli. Sono molto in empatia con i popoli zingari, non riesci a catalogarli».

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Come hai cominciato a fare fumetti? «La formazione è stata su la Storia del West, poi ho intercettato in modo strano Corto Maltese, causa mia madre che faceva la parrucchiera: all’epoca le strisce di Pratt venivano pubblicate sui giornali femminili. Ho cominciato a fare fumetti da subito. Mia madre smise di comprarmi i quaderni perché li consumavo troppo velocemente. Un personaggio in ogni pagina, poi li facevo scorrere sfogliandoli, tipo film. Lei si lamentava ‘Te l’ho preso ieri e l’hai già finito!’. Ero costretto a disegnare nei vecchi quaderni di scuola degli anni precedenti, negli spazi bianchi».

Anche ora usi molto il bianco, le sospensioni, i vuoti. «È un lavoro di sottrazione, chiede più fatica al lettore. La chiamano scrittura aperta. Quello che temo di più quando lavoro è la noia. Già annoio me stesso e non voglio annoiare anche gli altri. Il fumetto ti costringe a stare su certi passaggi narrativi molto tempo, convivi con due battute per ore, quindi cerco di essere abbastanza vigile sulla retorica. Mi interessa la struttura a mosaico o a tappeto persiano, tante tessere o elementi anche slegati ma che insieme compongano un disegno. Come del resto siamo noi oggi nella vita reale, presi da tanti input, È raro che ci sia un percorso narrativo lineare, non interrotto da altri piccoli eventi dell’esistenza. Il montaggio che uso nelle storie cerca di rispecchiare questa frammentazione, siamo sempre distratti da qualcosa».

Infatti, come a dimostrarsi, richiama la mamma. Il problema è risolto ma abbiamo perso il filo del discorso. «Ha scazzignato nel bolier, ora funziona. Il filo del discorso? Ah, giusto, come dicevamo, per me le storie sono perline legate da un filo. Il filo narrativo serve ma non è quello che mi interessa, quello che importa è quello che succede attorno».

 

Sabato 21 maggio, Faenza (RA), Saletta del Fontanone, Rotonda di viale Stradone, Presentazione del libro SPUTA TRE VOLTE di Davide Reviati (Coconino Press). Incontro con l’autore, Ore 18. Info: 339 1228409