Christy Moore, sempre prima del diluvio!

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Negli anni, da queste parti, è maturata un’opinione ben precisa: i (pochi) media non anglo-irlandesi che hanno parlato di Christy Moore, hanno sempre mancato di capirne la grandezza – per pura incapacità di analisi, se perdonate la sicumera dell’affermazione. Il punto è che Christy è il vero grande folksinger che oggi ci resta – e per folksinger si deve intendere che, davvero, Moore rifugge tutte le categorie possibili, tipo quelle che i media usano per incasellare in evenienza di un coccodrillo in mortem. Non importa che canti pezzi suoi o di suoi amici, che parlino di guerra civile spagnola o di colossali sbronze in qualche nascosto pub della sua Irlanda (adesso basta alcol da un pezzo, però!), che arrivino dalla penna di qualche sconosciuto folk-fighter come Jim Page, tipo la sempre emozionante Hiroshima Nagasaki Russian Roulette consegnata all’immortalità dai Moving Hearts, o di classici assodati come Bob Dylan, Richard Thompson, Jackson Browne, Shane MacGowan, Joni Mitchell – ciò che davvero impressiona è come Christy Moore riesca, nell’atto della sua arte, a far scordare qualsiasi nozionistico background di quello che sta cantando, restituendolo come se fosse sempre e comunque suo. Per farla breve, come i migliori eroi folk, Christy-l’ex-sindacalista segue il dogma che prima di tutto “la causa”, non importa se con parole proprie o altrui. Che sia una chiave di lettura anche per altri giganti come Nina Simone, Joan Baez o Harry Belafonte? Da queste parti ne siamo pienamente convinti.

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Ogni concerto di Christy Moore nelle Isole Britanniche è un evento, di quelli che però evitano molto bene l’effetto messa cantata – per quello bastano e avanzano molte rockstar alla fine dei propri giorni che riempiono gli stadi come ultimo atto dedicato al gioco che oggi gli riesce meglio: il raschio del barile. L’uomo, a Dublino come a Londra, è rispettato senza esitazioni – e anche stavolta, nella sempre perfetta cornice della Royal Festival Hall londinese, l’abnegazione degli adepti si poteva quasi tagliare come il burro con un coltello: per dire, mette naso on stage e in un secondo parte d’amblée una standing ovation, senza ancora aver detto né a né ba. Dicevamo – Moore sale sul palco accompagnato, come oramai sono anni, dal fidatissimo Declan Sinnott alle chitarre e dalla new entry Jim Higgins alle percussioni: e per due ore ti porta lontano dalla “pazza folla”, ti fa entrare nel suo mondo fatto di voce vellutata ma ferma, quella di chi non ha mai tradito se stesso e, per estensione, il proprio pubblico – insomma, sei lì perché Christy Moore le cose le sa raccontare come davvero pochi altri. E a quelle cose ci devi credere, se no ti dai ai reality.

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Declan Sinnott
Declan Sinnott

Tutto è sobrio ma non limitato, tecnicamente parlando – perché il mondo finger-picking del Maestro è una vera avventura che rende unico ciò che capita in scaletta, per la grazia ma anche la grinta di giovani sessanta-settantenni come Moore e Sinnott. Qui e là, l’artista anticipa pezzi dell’album che dovrebbe uscire entro un paio di mesi: quanto sentito è il solito Moore di grande pregio. Curiosità già altissima per udire tutto il disco, quindi. E poi via verso la leggenda, la gloria, la storia: Smoke And Strong Whiskey e North And South Of The RiverLisdoonvarna e Missing You, l’epica cover di Before The Deluge (Jackson Browne) già nel repertorio Moving Hearts e quella altrettanto splendida di The Magdalene Laundries (Joni Mitchell), Ride On e How LongCity Of Chicago e Black Is The Colour che per intensità rivaleggia con Nina Simone, Yellow Triangle e Spancillhill (ah, il Christy 1970 di Prosperous!), nonché due perle dei Planxty quali l’inattesa The Pursuit Of Farmer Michael Hayes e una stordente Well Below The Valley tutta giocata con il battito del bodhran e che ha fatto sussultare lo splendido auditorio del Tamigi-sponda sud.

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A margine, piace notare come Christy Moore sia stato particolarmente loquace lungo tutto l’arco dell’esibizione: battute, tirate politiche e quant’altro, con il pubblico, come detto, letteralmente ai suoi piedi. Fra tutto, a colpire di più, il racconto di quando egli capitò a Londra per la prima volta, annus mirabilis 1966: Christy narra che si trovava dalle parti di Fulham e per caso passò accanto a un folk club, ambiente allora sconosciuto con lui giovinastro ancora abituato solo ai pub irlandesi, dove si stava esibendo nientemeno che Anne Briggs, l’Ape regina del folk inglese anni Sessanta (chi ama davvero i Pentangle e i Led Zeppelin sa di cosa stiamo parlando) – entrato lì dentro, dice che l’emozione fu grande, irripetibile e che nella sua memoria sia tuttora palpabile. Non stentiamo a crederlo – così come non tratteniamo quanto grande e irripetibile sia l’emozione che regala Christy Moore ogni volta che batte un palco.

CICO CASARTELLI

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