E, insomma, tutte le volte che vedevo il disco di Kamasi Washington nei migliori dischi del 2015 avevo una reazione stizzita. Credo conosciate la storia: è un’operazione di jazz a maglie larghe, più o meno free, che rivive con passione alcune di quelle avventure espansive jazz rock intraprese prima che il genere diventasse fusion (e fosse ricordato alla stregua di una parolaccia), più alcune robe spaziali alla Sun Ra, e così via.
Ora: il disco, che poi sono tre, è anche valido. È suonato con competenza, benché prolisso e del tutto immune a qualsiasi scatto in avanti.
Il punto stizzito era sul fatto che il suo improvviso successo, e l’improvviso plebiscito a riguardo, derivasse non tanto dai contenuti ma dall’essere semplicemente uscito per l’etichetta cool dell’anno, pertanto veicolato a un pubblico che di questa musica non sapeva nulla, e che lo aveva accolto – stringi stringi – come accogliemmo noi il primo bambino africano alle scuole elementari di Modigliana a fine anni ’70.
Con ignoranza, stupore, esotismo, eccitazione, e la sensazione che l’Africa avesse cominciato ad esistere il giorno che l’avevamo toccata con mano noi.
Nei lunghi pomeriggi di disintossicazione dai superlativi a caso per Kamasi, sovente imposti con profluvio di avverbi da gente che non distingue un accordo minore da uno maggiore, necessitavo di una pozione magica per riconciliarmi con i piani superiori del Suono.
Un jazz nient’affatto free. Anzi: un jazz-musica che raccontasse una storia, mille storie, che dicesse chiaramente chi era e cosa sentiva, e si prendesse la responsabilità melodica di farlo. Che al gesto eclatante preferisse una classe sottile e mai sfacciata per ritmo e melodia e un solismo ficcante ma understated.
Mai scelta fu più azzeccata di quella di mettere in rotazione domestica Mulatu Astatke. Una rinnovata rivelazione. Il disco in questione, per la cronaca, è New York – Addis – London: The story of Ethio Jazz 1965-75. Quando ascolto Mulatu a me viene in mente Nino Rota. Ora: la musica non c’entra quasi nulla, ma la storia personale non è dissimile. Gente intrisa del sentire melodico o ritmico della propria terra che – negli anni giusti – va a studiare altrove. Nella fattispecie, nelle terre del Jazz. E anziché cedere al manierismo, anziché fare l’ammerigano, sposta tutto su un altro piano, dove il jazz, il sentire-jazz, l’imparare il jazz funge da propulsione per allargare i confini e per stabilire nuovi livelli su cui organizzare la propria materia foklorica, e il proprio sentire.
Rota lo ha fatto con le marcette popolari italiane, Mulatu con la musica etiope. L’uno è andato a studiare in America, l’altro pure (ma non solo).
Ora: la musica di Mulatu è una delle musiche più belle, più fini, più dense e al tempo stesso meno pesanti in cui possiate imbattervi. Non è un caso che goda di rispetto incondizionato tanto nel mondo colto che in quello, per così dire, rock. C’è il latino, c’è l’Africa, c’è quel sentire marittimo e di terra del viaggiatore. Di colui che è in molti posti insieme, uno sulla mappa e uno sul cuore.
Dietro a tutto un compositore e arrangiatore di serie A, figlio del proprio tempo e della propria terra, e tuttavia riscoperto anche dalle giovani generazioni. L’ultimo suo disco – Sketches of Etiopia (2013 – Jazz Village) – sarà presentato integralmente sabato 20 febbraio al Locomotiv Club in occasione dell’Express Festival 2016. Bisogna andarci, che Mulatu è un gigante e non è più un ragazzino.
ANTONIO GRAMENTIERI
20 febbraio, Bologna, Locomotiv Club, via Serlio 25, ore 22, info: 348 0833345