Prima domanda d’obbligo: chi te l’ha fatto fare?
La mia storia di critico teatrale s’intreccia con quella del Pim: il mio primo scritto, su Sarah Kane, è del 14 giugno 2005, su Amnesia Vivace, e il 3 agosto 2005 Maria Pietroleonardo, anima e mecenate del Pim, firma il primo contratto d’affitto nell’allora spazio di via Tertulliano. Al Pim ho incontrato molti degli spettacoli che hanno formato e maturato la mia visione: una generazione nuova di artisti, in quegli anni, si stava affermando e, con essa, di critici. Diciamo poi che questo libro è un “risarcimento” alla mia compagna di allora, che proprio non sopportava che passassimo al Pim quasi tutti i sabati sera: la sua pazienza ha dato vita, se non altro, ad un libro.
Nella quarta di copertina il PimOff è descritto come un teatro «capace di trovare forze ed energie nei margini e nelle irregolarità». Puoi fare tre esempi concreti per spiegare questa definizione?
Il luogo, innanzitutto: la periferia milanese. Siamo abituati ad attribuire al centro tutte le responsabilità in materia di politica culturale: il Pim è riuscito a traslitterarla fuori, Tertulliano prima, e poi Gratosoglio. Poi, i “confini”: ci sono persone che ancora sono tentate dall’attribuire a fenomeni ondivaghi etichette di comodo (uno per tutti, il Mibact): il teatro di prosa, la danza, le arti visive, la musica jazz. Il Pim ha mescolato tutto questo, facendo della contaminazione, l’ibridazione, un genere espressivo che potrebbe suonare, a orecchie meno smaliziate, come eretico. Da ultimo, i nomi che qui sono passati. Uno dei meriti del Pim è il talent scouting: lo stesso Filippo Timi, quando è venuto al Pim, ancora non era il Timi che conosciamo oggi.
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Come hai evitato di costruire un’agiografia di questa esperienza, di fare un libro “devozionale”?
Ho ragionato a lungo su questo punto che è stato, per me, la condicio sine qua non per accettare il lavoro: carta bianca sul mio operato, libro da intendersi come manuale delle buone pratiche teatrali, non come cronaca di un’avventura personale. E devo dire che Maria ha condiviso, con fiducia piena, questa visione. È stato facile, allora, tradurre il pensiero in un libro: quali sono i fattori che rendono esemplare la storia del Pim? Due, essenzialmente: le politiche culturali e l’estetica (o meglio, le estetiche) che ha contribuito a divulgare. Non ho fatto altro, allora, che mettere nero su bianco questi spunti, e poi affidarne l’analisi a specialisti della materia, partendo dal Pim per spaziare, raccontare, inquadrare fenomeni più ampi e complessi.
Per chi non se ne intende: un artista o un gruppo che hai scoperto grazie al PimOff e che ti sentiresti di consigliare.
Sicuramente Zerogrammi: assistere a Zerogrammi e poi, soprattutto, a Mappugghje, è stato fondamentale, per me. E poi, Fibre Parallele. Avevo visto il loro Mangiami l’anima e poi sputala a Scampia, ma è al Pim che ho cominciato a seguire con interesse il loro lavoro, con 2 (due), Furie de sanghe e Duramadre. Ma tanti altri artisti potrei citare, ad esempio, Andrea Cosentino, un grande talento, e anche un grande attore, che ancora non gode della considerazione che merita. Almeno al di fuori del contesto romano.
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Il libro è diviso in Storie, Politiche ed Estetiche. Perché questa tripartizione?
Sono i tre ambiti in cui più incisiva è stata l’azione del Pim. Non avrebbe avuto senso raccontare cronologicamente una storia, ne esistono tante… Ho scomposto i vari ambiti d’indagine, e li ho ri-enucleati in sezioni. Ogni sezione è suddivisa in parti, una di “teorie”, e una di “pratiche”, testimonianze, interviste e conversazioni con chi il Pim l’ha vissuto, gli artisti, i quattro direttori. Perché ogni fenomeno complesso deve preservare, nel momento della messa in forma, la pluralità delle forze e degli agenti che lo hanno generato. Unità nella diversità.
Hai curato questo volume con la collaborazione di Antonella Cagali. Come vi siete divisi i compiti?
Antonella ha collaborato per anni con la Ubulibri. È un’editor fantastica, a lei devo tutto il lavoro, attento e scrupolosissimo, di ricerca sulle fonti, ricostruzione delle stagioni, raccolta del campionario fotografico, revisione dei saggi, mentre io mi sono intrattenuto più sui contenuti, la definizione della scaletta, la scelta, il contatto e il rapporto con gli autori, la definizione delle strategie. Voglio ricordare, inoltre, Damiano Pignedoli, ex Ubulibri e poi collaboratore di Cue Press: non avremmo portato a termine il libro senza la sua mediazione con l’editore, il lavoro “matto e disperatissimo” d’impaginazione, commento e revisione dei contenuti.
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Molti contributi sono aggiornatissimi, sembrano scritti ieri. Ciò non rischia di rendere il libro presto “sorpassato”? Non sarebbe stato meglio realizzare per esempio un blog, costantemente aggiornabile?
Sono cresciuto, giornalisticamente parlando, alla scuola di Hystrio. Quindi, con il pensiero del cartaceo. L’idea del web è arrivata poi, quell’estate del 2010, quando a Kilowatt mi sono confrontato con gli altri critici “fiancheggiatori”, miei coetanei. Ma a tutt’oggi è naturale, per me, fare riferimento in primis al cartaceo. Riguardo ai “contenuti aggiornatissimi”, voglio augurarmi che il messaggio di fondo del libro non perda, negli anni, di sostanza. Anche perché dubito che si smetterà a breve di parlare di residenze, di jazz, o di formazione del pubblico. E se anche accadesse, certo rimarrà la testimonianza di un periodo storico irripetibile.
Quale interesse potrebbe avere il vostro volume per i non addetti ai lavori?
La storia del Pim parla anche della storia di Milano. Come potrebbe essere diversamente: la storia del Pim è influenzata dai cambiamenti che hanno investito la città (e non solo, penso all’Italia). Leggere il libro significa allora, per i milanesi, fare un salto nel tempo e in una memoria condivisa. Per tutti gli altri, quelli che non sono milanesi e che, semplicemente, amano l’arte, è invece una guida per orientarsi su quanto di buono o di meno buono è stato fatto a teatro negli ultimi dieci anni.
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Una sorpresa e una delusione (vere) che questo percorso editoriale ha portato.
Mi ha sorpreso l’entusiasmo e la passione con cui gli artisti e molti critici, anche lontani da Milano e dalla storia del Pim – penso a Roberta Ferraresi, Matteo Antonaci, Lorenzo Donati, Luca Ricci, Giulio Stumpo – hanno risposto all’appello. Specularmente, mi ha deluso l’indifferenza di altri, critici o artisti che hanno temporeggiato e poi non si sono prestati, come i Motus, Roberto Borghi o Elvira Vannini, che si è ritirata dal progetto due giorni prima della consegna del contributo.
Qual è il valore propriamente politico, oggi, di un’esperienza come quella del PimOff?
Sono tanti i settori, diciamo così, in cui la politica culturale del Pim ha meritato un plauso. Ne elenco alcuni: l’investimento sulle residenze, il jazz, la danza, la formazione del pubblico, il lavoro – non importa quanto riuscito – sul territorio, la pubblicazione di bandi per la programmazione. Ma ce n’è uno che, più degli altri, si è imposto: il mecenatismo. La storia del Pim è la storia di un privato che ha scelto di dedicare al teatro tempo, risorse e competenze. Gratuitamente. È un esempio, mi auguro, che possa fare scuola, in un momento come questo segnato dalla crisi dei finanziamenti pubblici.
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MICHELE PASCARELLA
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Info: cuepress.com, pimoff.it
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