Tre caratteristiche di Gemme e Tempesta, la rassegna che ospiterà il vostro spettacolo.
Monica Morini: Il teatro corre fuori dal teatro, sboccia in una serra, abbraccia un pubblico disobbediente che non sta dentro definizioni, attento al teatro ma anche persone che abitano un quartiere difficile, poi giovani universitari, pubblico sensibile alla realtà della cooperativa sociale I Percorsi che è motore di tutta la rassegna e che si occupa di persone colpite da malattie rare in età adulta. La fragilità e la bellezza sono filo rosso che attraversa gli spettacoli, sono il canto sommerso, la traccia che lasciamo dentro una serra che culla bulbi di vita.
Bernardino Bonzani: Aggiungerei che questa di Gemme e Tempesta è anche una formula innovativa che mira a fare incontrare due mondi, quello della cultura e quello della cura della persona che spesso camminano con parecchi punti in comune ma su binari paralleli che non dialogano.
Nei materiali di presentazione definite Questo è il mio nome «una finestra aperta su storie invisibili, un orecchio rovesciato su un canto che attraversa i mari e i deserti». Perché?
MM: Nella Carta del XII secolo dei cacciatori del Mali si dice: «Ogni vita è una vita, ogni vita vale». Ecco, un canto antico viene dall’Africa e ci ricorda prima della nostra Carta dei Diritti dell’Uomo che ogni vita vale, non esistono vite di seconda categoria. I giovani che abbiamo incontrato e che calcano la scena vengono dall’Africa Sub- sahariana, hanno camminato i deserti, hanno attraversato i mari, sono Odissei che cercano un’Itaca chiamata vita. Chi vuole ascoltare il loro canto può comprendere la ricchezza di un sentire che ci dice uomini di pari dignità, gonfi di ferite, desideri, slanci verso la felicità.
,
Qual è il maggior pericolo da scongiurare, nel trattare un tema tanto sensibile?
MM: So che non abbiamo voluto trattare le ferite come centro drammaturgico, so che abbiamo lasciato che la storia che li ha attraversati si srotolasse partendo dalle memorie che ci rendono uguali come uomini. I giorni felici, l’infanzia che ha tempi intatti, la relazione con padri e madri, con i saperi di cui siamo portatori. Poi questo patrimonio incandescente fa i conti con realtà che negano la sopravvivenza, allora la vita porta allo strappo, alla scelta, alla fuga. Sulla scena galleggiano le parti che rimangono escluse da tutti i documenti ben catalogati nelle carte delle Questure del mondo.
Una sorpresa e una delusione (vere) che questo percorso ha portato.
MM: Ogni lavoro è frutto di fatica, di ricerca, di costanza e di ascolto. Ma sentiamo che l’incontro con lo sguardo di questi giovani risolleva dalla fatica, ha invisibile forza. Non vi è delusione in questo incontro fitto di storie sorprendenti, di umanità gonfia di gratitudine che commuove. Vorremmo solo poter rendere meno precario il loro stare e tessere futuro insieme.
BB: La gratitudine e l’affetto nei nostri riguardi da parte degli attori è qualcosa che continua a sorprendermi. Ciò che pesa è constatare che il percorso potrebbe davvero andare avanti con esiti imprevedibili, ma le difficoltà produttive e contingenti ne rallentano lo sviluppo fino quasi a soffocarlo.
,
Dal punto di vista strettamente teatrale quali clichè avete dovuto cercare di smontare, in questo lavoro con non-attori?
MM: Non lo so, forse ancora il lavoro mostra la struttura laboratoriale, la volontà di farli partecipare tutti, di far lasciare un segno di memoria in ogni scena. Vedremo a Milano che cosa accadrà.
BB: Il lavoro sulla verità della scena è arrivato a segno molto chiaramente, questi giovani hanno un sentire ancora puro, a volte primordiale, che li rende unici nel lavoro teatrale. A volte è stato faticoso riuscire a fare rispettare la disciplina del teatro e gli orari delle prove, diciamo che abbiamo dovuto mediare un po’ con i ritmi africani…
Questo è il mio nome, in arrivo a Milano in prima nazionale, è stato presentato in anteprima nella vostra città, Reggio Emilia. Quali reazioni ha suscitato la prima uscita pubblica dello spettacolo negli attori, nel pubblico e in voi due?
MM: A Reggio Emilia eravamo dentro Festival Aperto, la platea era gremita, posti esauriti, il tema molto sentito, il Sindaco in prima fila, la gente commossa alla fine della performance in piedi ad applaudire a lungo. I ragazzi per la felicità non hanno dormito la notte, era la prima volta che sentivano che lo sguardo dell’altro li vedeva veramente e il filo rosso della loro storia non stringeva nodi con altri cuori. Un bel miracolo, di quelli che il teatro fa quando raduna i vivi e li rende più vicini.
,
Qual è il valore propriamente politico, oggi, per voi, di Questo è il mio nome?
BB: Non è facile riassumere in poche parole. Intanto la forza e l’energia degli attori in scena ci ricordano quale enorme vitalità potenziale possono portare i nuovi cittadini del mondo. Solo dall’incontro e dalla conoscenza che possiamo avere con loro si possono sfrondare pregiudizi e discriminazioni infondate. La causa originaria del loro migrare è tutta nelle responsabilità dei Paesi ricchi, nello sfruttamento, nella povertà e nelle guerre che sono state generate. Lo spettacolo ci dice anche che l’integrazione è possibile, che la convivenza pacifica e la cooperazione per la pace sono l’unica strategia praticabile.
In occasione dell’anteprima, il figlio dodicenne di una spettatrice ha commentato: «Nonostante tutto quello che hanno passato sanno essere sempre fighi». Che tipo di bellezza cercate, qui?
MM: La bellezza qui non va cercata, ma semplicemente riconosciuta. La bellezza di queste persone abbaglia: hanno forza, dignità, riconoscenza. Sono forti, tanto forti, ciò li ha fatti sopravvivere nonostante tutto. Stanno a braccia aperte, pronti a fare, a ricominciare senza lamentarsi, a dare un contributo L’energia che portano fa bene a noi tutti, scuote da torpori e false idee di felicità. Ci ricorda perché viviamo.
.
MICHELE PASCARELLA
.
13 dicembre, ore 18.30 – Milano, Serra Lorenzini, via dei Missaglia 44 – ingresso gratuito, prenotazione obbligatoria – info e prenotazioni: ipercorsicoop.org