Ricordo e dimenticanza, maschile e femminile, vicinanza e solitudine: sono i contrari, a volte intrecciati, a volte semplicemente inconciliabili, che imprigionano, come una gabbia invisibile, i protagonisti di 45 Anni (45 Years), terzo lungometraggio, ispirato a un racconto di David Constantine, del britannico Andrew Haigh, già regista del dolente Weekend (2011), sull’attrazione prima occasionale e poi duratura di due uomini conosciutisi per caso in un locale gay. Nel nuovo film, la sua macchina da presa, geometrica, razionale e mai tacciabile di calligrafismo nonostante l’assoluto rigore della composizione delle immagini, si sofferma sui volti, spesso inquadrati in piano medio, dei coniugi Mercer, ossia Tom Courtenay e Charlotte Rampling (entrambi magnifici), in procinto di festeggiare i 45 anni di matrimonio. Una mattina, però, arriva una lettera dalla Svizzera, dove Geoff – il marito – era stato in vacanza con un suo amore di gioventù, Katya, morta cadendo in un burrone: il corpo della ragazza, custodito immobile dal 1962 in un blocco di ghiaccio reso visibile dallo sciogliersi delle nevi, è stato ritrovato. La notizia scuote Geoff, ma scuote ancor di più una Kate – la moglie – d’improvviso assillata da dubbi, angosce e rimorsi, turbata dalla precedente reticenza del coniuge, costretta a fare i conti con la configurazione della propria vita di fronte all’emergere istantaneo di troppi, dolorosi “se”. Se Katya non fosse morta, Geoff l’avrebbe sposata? Se quel futuro possibile, troncato dalla fatalità, si fosse realizzato, ci sarebbe stato spazio, per Kate, nella vita di Geoff? La presenza di Katya (Kate se ne rende conto solo ora) ha sempre aleggiato sulla vita matrimoniale dei Mercer, tornando a diventare reale nella grigia fragilità di Geoff, nella sua rinata inquietudine, nel suo bisogno di tornare a osservare le foto, conservate per tutti questi anni, dell’altra.
Kate, saltata la ricorrenza del quarantesimo a causa di un’operazione al cuore di Geoff, vuole festeggiare l’anniversario della loro unione, ballare di nuovo col marito, come accadde durante la festa di nozze, al ritmo dolce e romantico di Smoke Gets In Your Eyes dei Platters. Come in Always – Per Sempre (Always, 1989), il sognante doo-wop del gruppo di Tony Williams diventa un’allegoria sonora della relazione tra innamorati, ma se nel film di Steven Spielberg (fiabesco remake dell’altrettanto incantevole Joe Il Pilota [A Guy Named Joe, 1943] di Victor Fleming) il brano simboleggiava l’idillio amoroso, più forte del rimpianto e della vita stessa, tra Richard Dreyfuss e Holly Hunter, nella pellicola di Haigh il «fumo negli occhi» diventa quello della reticenza, del non detto, dell’inespresso, dell’amarezza e della debolezza infiltratesi nella convivenza di Geoff e Kate da quando una lontana parentesi del tempo è riapparsa per intromettersi tra di loro. Ambientato nelle pianure inglesi del Norfolk, 45 Anni vede lo sguardo del regista posarsi sulla sua meravigliosa coppia di attori con estremo pudore, nel tentativo di dipingere i faticosi sforzi, da parte dell’uomo, di vivere anziché vegetare, la sua destabilizzante assenza di contegno sociale, il suo fastidio verso i cambiamenti di un mondo forse rimpianto, forse da sempre vagheggiato, mentre la donna, d’un tratto costretta a confrontarsi con un’ambiguità inaspettata, inizia a scavare dentro la propria personalità e i propri sentimenti, interrogandosi sulla gelosia e sulla distanza incolmabile dal passato, fino a sfiorare con estrema pena, di notte, l’infisso della soffitta (dove Geoff custodisce diari, diapositive e valigie di quell’antico viaggio), come se tra i materiali accatastati nel solaio potesse ancora nascondersi il respiro di una creatura umana, il rintocco di una voce ancora intenta a elaborare progetti e nutrire desideri.
Andrew Haigh, con pochi e azzeccati dettagli visivi (il ricorrere delle passeggiate mattutine di Kate con il cane, il gesticolare sempre più nervoso di Geoff), sottrae la dimensione dell’anziana coppia a qualsiasi parametro di libertà, o trasgressione, per mostrarla all’interno di una passione chiusa, quasi metodica, morbida di silenzi e abitudini: nel momento i cui la memoria riemerge, accidentale, e con essa la realtà, la passione, l’imprevisto, la routine dei due inizia a smantellarsi con una progressione altrettanto lenta ma inesorabile, e le piccole attenzioni, i momenti di tenerezza dettati più dalla consuetudine che dal sentimento, appaiono insufficienti a circoscrivere il proliferare dei dubbi. Tramite un meccanismo circolare, quasi crudele nella sua verosimiglianza, dallo sconcerto iniziale di Geoff si passa alle incrinature sempre più profonde delle certezze di Kate, immortalata nell’ultima, straziante e formidabile sequenza del film – un graduale, sfumatissimo zoom sulla coppia, durante l’agognata danza sulle note dei Platters, che non può non ricordare le sontuose carrellate di Stanley Kubrick in Barry Lyndon (1975) – in fotogrammi di raggelante solitudine, dentro la spietata architettura iconografica (la vediamo schiacciata nel centro dell’inquadratura, alla maniera di un delinquente con le spalle al muro) di una stabilità esistenziale andata in frantumi. Il controllo dello stile, nel film di Haigh, corrisponde a un senso malinconico del vivere riflesso nella repentina precarietà interiore dei suoi protagonisti, ormai incapaci di tenersi per mano e attraversati dal dolore bruciante della perdita. O, per usare le parole dello scrittore inglese T.H. White, dalla «costante presenza dell’assenza».
Gianfranco Callieri
45 ANNI
Andrew Haigh
Uk – 2015 – 95’
voto: ****