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Donna non rieducabile è un testo di Stefano Massini, drammaturgo attualmente al centro dell’attenzione generale sull’onda del monumentale Lehman trilogy: 300 pagine di teatro e ultima messinscena di Luca Ronconi – mancato proprio quando erano in corso le repliche dello spettacolo – al Piccolo Teatro di Milano.
Il titolo cita una delle formule con cui i servizi segreti russi bollano i giornalisti: tra i vari gradi di controllabilità, quello di “non rieducabile” è appannaggio di chi non si rassegna ad avallare la versione di stato delle crisi che sconvolgono il paese al tempo della guerra cecena. Ed è ad Anna Politkovskaja che l’epiteto – verremo a sapere nel corso dello spettacolo – viene riservato. A lei, e al suo lavoro di documentazione sulla guerra cecena, è dedicata l’opera di Massini, che si apre con due immagini: una perturbante e una feroce. La prima ci presenta la Cecenia come uno “sgabuzzino del mondo”: certi luoghi della terra sono come sgabuzzini – dice più o meno Massini – nei quali non è permesso guardare; vi si ammucchia tutto ciò che torna utile alle altre nazioni, ma che il più delle volte rende schiave le popolazioni indigene: “quando vai in una casa che fai, guardi dentro lo sgabuzzino?”. Non si può, non si deve. Così, il gasdotto che taglia in due la città di Grozny e ne condiziona ogni aspetto della vita ci appare di colpo, nelle prime parole pronunciate dall’attrice Elena Arvigo, come qualcosa che evoca la nudità desolante della struttura tecnica del mondo: quella rete immensa di tubi e cavi che taglia il globo; che rende comoda la vita a una piccola parte dell’umanità e contribuisce a gettare nella disperazione la restante parte. È il gasdotto che ci traghetta dal perturbamento della prima immagine alla crudezza della seconda, quando apprendiamo che in cima a uno dei tubi che campeggiano nel centro della città l’esercito “regolare” russo alla caccia di “terroristi” ha appeso una testa. Una testa umana che gocciola sangue. Così, dalla porta dello sgabuzzino entriamo direttamente nell’orrore quotidiano della guerra cecena.
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La scena dell’Out Off è completamente spoglia; già illuminato prima dell’inizio, il palco nero dà desolazione; ed ecco che sulla musica l’attrice entra, dalla parte del pubblico, con due sporte cariche di frutta – poi capiremo il perché. Poche battute, e compare in scena, trascinato dalla performer, quello che sarà il suo partner principale: un telaio di porta, senza battente, nero.
È un oggetto che ne evocherà di volta in volta altri, in un gioco di rimandi con il testo di Massini che ricorda un procedimento analogo a quello cui ci ha abituati un certo teatro di ricerca, straordinario nel riuscire a dare vita multipla a oggetti che tuttalpiù potrebbero svolgere una funzione simbolica statica (la porta è uno di questi, forse tra i più forti; qualcuno si ricorderà di uno spettacolo come Kaosmos dell’Odin Teatret).
Così, se è abbastanza scontato che dopo il racconto di una decapitazione l’attrice si accolli la porta sulla cervìce, spostandola nello spazio e richiamando l’immagine di una ghigliottina, un po’ meno scontato, perché strettamente funzionale alla resa dell’ultima scena del testo, il fatto che, sul finale, la stretta cornice rettangolare vada evocando, claustrofobicamente, la cabina d’ascensore nella quale la Politkovskaja sarà assassinata.
In realtà è subito chiaro che la necessità di un oggetto del genere serve a integrare il lavoro dell’attrice, a fornire cioè un contraltare concreto a quella che chiamerei “evasività” gestuale della Arvigo. Evasività nel senso che il suo corpo non è mai veramente impegnato in un’azione, ma tende al rilassamento di una conversazione tra attore e pubblico. Così non sorprende notare che il più delle volte l’attrice tiene le mani nascoste nelle capaci tasche di un cappottone quasi militare lungo e sdrucito, o in quelle meno vaste di un paio di pantaloni neutri color nero. Non è l’immedesimazione il registro dominante, anche se qualche volta ci si imbatte in concitazioni febbrili o in risate quasi isteriche; né il “ping pong” interpretativo tra diversi personaggi (ce n’è più d’uno infatti: la giornalista russa, il comandante, il soldato, l’attrice stessa che narra ecc.); c’è invece uno stare, più o meno comodo, nella propria veste anche seducente d’attrice, mostrando appena i personaggi, come fossero una variante solo accennata del tono recitativo generale. Dunque evasività nel senso di un rifuggire dalla tensione-distensione del gesto, per posare nella tessitura quotidiana, più rassicurante per lo spettatore, di passi, passetti, giravolte che possono solo avere la funzione di occupare per linee sapienti a poco a poco tutto lo spazio, ma che non sembrano possedere una più intrinseca necessità.
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Anche quando la Arvigo indossa un cappelletto per impersonare l’assassino soldato diciannovenne, non cambia di molto la propria temperatura interpretativa; che tuttavia trova nella voce decisa, chiara e suadente della performer il principale mezzo espressivo, che trasporta e sostiene tutta la massa del testo. Testo che, dal canto suo, è di una incisività cristallina e pericolosa; si deposita sui nervi dello spettatore come carta vetrata, a volte con paradossale dolcezza, altre volte con accenni di isterica energia, più spesso scuotendoli con scorci d’orrore rigorosamente documentati, quando monta brani del diario e di alcuni articoli della giornalista russa, per culminare nella delicata carezza riservata, nome per nome, con l’attrice che deposita rose sul palco e sgrana il rosario dell’età di ciascuna vittima (6, 10, 12 anni…), ad alcuni dei ragazzini uccisi nella strage di Beslan.
Un teatro civile nel senso alto del termine, e una buona prova d’attrice; con un finale ben congegnato e d’impatto, quando percepiamo la quadratura del disegno registico nell’immagine finale – già citata – dell’ascensore, o nel più emozionante disperdere a terra la frutta portata dalla Arvigo all’inizio dello spettacolo e che infine rivela il suo legame con l’omicidio; correlativo oggettivo di un’azione che non vediamo (l’esecuzione), ma che ci scuote quando intendiamo che la Politkovskaja, al momento dell’agguato, tornava dal mercato e aveva con sé, in ascensore, delle sporte con frutta.
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FRANCO ACQUAVIVA
Visto il 17 ottobre 2015 al Teatro Out Off di Milano