Cosa succede quando i colori dei Grateful Dead si impadroniscono di Venezia, della Biennale, di palazzi storici e della Laguna per ben dieci giorni? Può succedere di tutto – e, in effetti, di tutto è accaduto. Ma adiamo con calma, siccome la carne al fuoco è tanta – e vorremmo evitare di perderci.
Tutto nasce dall’intraprendenza di Michael Becker, newyorchese trasferitosi in Oregon da diversi anni e presidente della IGE-Innovative Giving Enhancement, fondazione no-profit che già un paio di anni fa si fece promotrice di un evento progenitore di questo del 2015 – più circoscritto e fatto in prevalenza con la partecipazione di una manciata di amici. Quest’anno, quello del cinquantenario dei Grateful Dead e del ventennale della morte di Jerry Garcia, la fondazione di Becker ha fatto le cose in grande, ossia per dieci giorni ha invitato in Laguna musicisti, artisti multimediali, ballerini e avventori di vario genere per un grande happening che ha regalato a quanti hanno presenziato un bello spaccato di way of life nel nome del grande gruppo americano – oltre ad avere unito le forze con la Rex Foundation, unica legittima fondazione che fin dei primi anni Ottanta si occupa di eventi e quanto più che gravitano intorno al mondo GD.
Come detto, le cose sono state fatte in grande. La IGE ha affittato tre interi pazzi storici nel sestiere di San Marco, locati fra Campo Sant’Angelo e Campo Manin, facendone la base dei vari ospiti – chi rammenta il 2400 di Fulton Street, nel caso dei Jefferson Airplane, e il 710 di Ashbury Street, in quello dei Dead, ricorda bene: l’idea è quella di radunare la gente come in quelle due dimore di San Francisco che così tanto hanno alimentato il mito West Coast, con appunto l’idea di sfruttare il rinomato contesto che offre la Biennale veneziana. Aggiungiamo, giusto per aumentare il fascino delle location scelte, che uno dei tre palazzi storici nonché quello designato a quartier generale, nell’Ottocento fu nientemeno che la dimora veneziana del poeta romantico Lord Byron – insomma, tutto molto, molto flamboyant.
Nelle quasi due settimane dell’evento, gli accorsi hanno potuto immergersi nell’ospitalità impeccabile di IGE, che ha organizzato situazioni di ogni genere: concerti e cocktail party, visite alla Biennale e rendezvous in altri posti di pregio di una città ovviamente sola al mondo – il tutto condito con la dimensione unica che la nazione alternativa dei Grateful Dead ha sempre rappresentato. Fra l’altro, fino all’ultimo si sono rincorse voci che uno fra Bob Weir, Bill Kreutzmann, Phil Lesh e Mickey Hart, ossia i quattro elementi superstiti dei Dead, potesse fare una visita a Venezia. Così non è stato – chissà che non sia per il prossimo anno, poiché IGE promette di ripetere l’esperienza nel 2016. Da segnalare la defezione di Tim Bluhm, il leader dei Mother Hips, scoperti negli anni Novanta nientemeno che da Rick Rubin, che poche settimane fa è rimasto coinvolto in un incidente automobilistico che lo sta ancora adesso costringendo in ospedale – le notizie, tuttavia, sono quelle di una lenta ma certa guarigione. Anche per lui, si spera, l’appuntamento sarà per il 2016.
Su tutto, le sette note. Da una parte musicisti di varia origine guidati dal Maestro Leonardo Suarez Paz, violinista e cantante argentino con esperienze crossover che per l’occasione ha presentato un programma dedicato al conterraneo e amico di famiglia Astor Piazzolla (il padre di Suarez Paz faceva parte dell’orchestra del bandoneónista e compositore) – con lui musicisti di estrazione classica per la maggior parte italiani che hanno eseguito alcuni numeri di Piazzolla come Camorra 3, Escualo e l’iper conosciuto Libertango, fra i quali si sono inseriti anche passaggi di danza tango.
Il piatto forte sono stati gli artisti con segno Grateful Dead, a cominciare da Scott Law, ottimo chitarrista/mandolinista e autore dell’Oregon cui sono stati delegati i compiti di costruire il progetto musicale dell’evento. Con lui Ross James, uomo di fiducia di Phil Lesh quando questi si esibisce con la formazione aperta dei Friends, Arthur Steinhorn, percussionista con esperienza in gruppi come la David Nelson Band, i New Riders Of The Purple Sage e i Kingfish di Bob Weir, e sopratutto John Kadlecik, magnifico quasi-clone di Jerry Garcia che per oltre un lustro fino allo scorso anno ha fatto parte dei Furthur, la formazione capitanata da Lesh e Weir che ha rinverdito per le arene e i festival di tutti gli Stati Uniti il mito GD. Nelle lunghe jam notturne al quartier generale, i quattro non si sono risparmiati e hanno dato vita alla loro personale versione della bellezza americana di deadiana memoria, facendo ballare e viaggiare i presenti al suono di classici del repertorio Dead quali Terrapin Station, When I Paint My Masterpiece di Bob Dylan (con i versi perfetti per l’occasione “Sailin’ round the world in a dirty gondola/Oh, to be back in the land of Coca-Cola!”), Stealin’, Been All Around This World, Friend Of The Devil, Ripple, fra i tanti proposti, cui non si può scordare i due magnifici originali di Kadlecik, Sisters Smiles e American Spring, entrambi tratti dal suo antico gruppo dei Mix, fondato a metà anni Dieci con Melvin Seals.
Momento clou l’arrivo del contingente italiano, scelto scrupolosamente. Per il gala al conservatorio Benedetto Marcello si sono uniti Veronica Sbergia e Max De Bernardi, occasione non proprio fortunata a causa della classica “acqua alta” veneziana che ha letteralmente paralizzato la città – anche se la sera ha comunque portato una jam di gran livello con Max e Veronica perfetti a convincere i presenti con il loro piglio sbarazzino e competente – l’hootananny ha visto scambiarsi di tutto: vino, sorrisi, canzoni e strumenti, come dev’essere in un’occasione informale come questa.
Le condizioni atmosferiche invece hanno baciato al meglio l’arrivo di Martino Coppo, elemento cardine dei genovesi Red Wine ossia il più longevo gruppo bluegrass d’Italia, e di Paolo Bonfanti con il suo fisarmonicista Roberto Bongianino. I tre assi italiani hanno preso parte al gala di Palazzo Albrizzi, dove la splendida e gremita sala dedicata al concerto abbellita di marmi e affreschi si è letteralmente sdilinquita al suono della pingue string-band – il tutto molto intenso sebbene breve, per far largo poi ai musicisti classici. Il meglio, però, sono stati i due hootananny che hanno visto protagonisti i tre italiani accanto a tutti i musicisti Yankee – serate dove i presenti non volevano più che si smettesse di suonare, con molti degli accorsi increduli per come Coppo, Bonfanti e Bongianino con la massima scioltezza se la giocavano alla pari con gente che con quei suoni e quella cultura, dai GD al bluegrass, vi è nata e cresciuta. Che dire, fra tanto ben di Dio, i presenti avranno davvero difficoltà a scordare come l’orchestra improvvisata con Law al canto, per esempio, ha inanellato You Win Again di Hank Williams.
Se è vero che il tempo è relativo, la musica dei Grateful Dead della relatività del tempo ne è stata l’epitome per antonomasia – e nel suo piccolo quest’evento così diverso nel panorama culturale o presunto tale italico, ingessato e sovrastrutturato, ha fatto della relatività il proprio motivo d’esistere – sentir risuonare “Sailin’ round the world in a dirty gondola/Oh, to be back in the land of Coca-Cola!” a Palazzo Albrizzi ha avuto un ché di magico e finalmente diverso. In sostanza, tutti contenti – in attesa che il tutto si ripeta.
CICO CASARTELLI