Lo ammetto, sono responsabile – Rod Stewart è forse il mio assoluto guilty pleasure! Sento la sua voce, e mi sciolgo – penso alla sua prima quindicina di anni nello spettacolo, e ho solo massimo rispetto per lui. E nel nome di quella sua voce del tutto perfetta, possiedo tutti i suoi album, ahimè! Tutte le volte che ne fa uno nuovo, e con questo Another Country è successo lo stesso, vi metto le mani sopra con la ferrea speranza che faccia un bel revival nel nome di antichi capolavori tipo An Old Raincoat Won’t Ever Let You Down (1969), Every Picture Tells A Story (1971), A Nod Is As Good As A Wink… To A Blind Horse (1971) dei Faces o anche Atlantic Crossing (1975) – niente, quella voce, quella meravigliosa voce, la getta puntualmente alle ortiche con lavori dozzinali, prodotti con grana grossa e zero voglia di rischiare. Purtroppo.
Negli ultimi trenta-trentacinque anni si è salvato poche volte: con Body Wishes (1983), con Unplugged… And Seated (1993), con il sorprendente When We Were The New Boys (1998) – dove rileggeva alla grande i Primal Scream, Ron Sexsmith, gli Oasis, Graham Parker, Nick Lowe, Mike Scott – e con qui e là alcune interpretazioni della penta-serie multimilionaria The Great American Songbook – il resto… il resto, quella voce non l’ha servita per nulla bene.
Adesso tocca ad Another Country – il primo album di brani tutti originali addirittura da fine anni Ottanta. Il primo che farei fuori dalle vicinanze di Rod è Kevin Savigar, suo produttore da svariati decenni che lo ha rapito dalla gran musica dei suoi anni ruggenti – non dico molto, basterebbe una telefonata a Don Was o a Ethan Johns e il Rod che ci piace sarebbe restituito al suo cliché di un volta. Il disco, sedici brani nella versione deluxe, conta di momenti veramente imbarazzanti che fanno scoccare un irritato: perché? Perché un settantenne con fiero sangue scozzese, che nei suoi giorni adolescenziali sognava di emulare Bert Jansch, Bob Dylan e John Martyn, si riduce a scrivere e cantare Batman Superman Spiderman, boiata di proporzioni esagerate? Perché insistere con la pochezza tutta celebrazione di Every Rock’n’Roll Song To Me, dove cita male di tutto fra Blonde On Blonde e Jackie DeShannon? Perché darsi a un reggae come Love And Be Loved, che sembra roba ordinata per un villaggio turistico dove fai di tutto quando ti chiama l’animatore se no sei più di là che di qua? Perché l’ennesimo svenevole brano tutto zuccheri A Friend For Life con un testo che davvero è la fiera delle banalità? Perché quel folk pomposissimo di We Can Win ammazzato con un coro sconcertante? Perché, Rod – perché? Kevin Savigar al suo amico-cliente gliel’ha avrà fatto sentire il final cut del disco? Voglio sperare di no!
Non tutto è così pietoso come nei brani poc’anzi menzionati – ma quelli salvabili si fanno apprezzare giusto perché tra tante note sprecate almeno regalano una parvenza déjà vu dei vecchi tempi del caro Rod. Tipo l’apertura spiega a tutti i Mumford & Sons di questo mondo che quella roba lì la faceva già decenni fa – e con una voce che al tutto faceva innescare il turbo. Oppure The Drinking Song che ha il passo (fintamente) sbadato di certe cose dell’ultimo Bob Dylan sospeso fra Things Have Changed e Tempest. Oppure ancora, Hold The Line che un qual fremito Faces te lo fa venire – solo che Ronnie Lane e Ian McLagan non ci sono più, e non vi è nulla che possa riportarli indietro. Per il resto – comprerò anche il prossimo album di Rod Stewart con l’immutata speranza che… già, la speranza è sempre l’ultima a morire, e finché Rod sarà in vita, ci aggrappiamo a quella.
CICO CASARTELLI
ROD STEWART – Another Country (Capitol)