The Walk: il cinema sospeso nel vuoto

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Philippe Petit (Joseph Gordon-Levitt) in TriStar Pictures' THE WALKLa mattina del 7 agosto 1974, alzando gli occhi verso il cielo, i residenti di New York vedono una sagoma umana – una silhouette nera e poco più – sospesa tra le Torri Gemelle, i due edifici da 110 piani, allora i più alti del mondo, inaugurati un anno prima. Si tratta di Philippe Petit, funambolo francese nato a Nemours nel 1949, diventato acrobata di strada sui marciapiedi di Parigi e dall’età di 17 anni, quando (su una rivista, nella sala d’attesa di un dentista) lesse del progetto di costruzione delle torri nella punta meridionale di Manhattan, ossessionato dall’idea di colmarne la distanza tramite una «camminata» (the walk) su filo. Petit attraversa, senza autorizzazione e senza protezione (la pianificazione dell’impresa, realizzata in incognito, durò sei anni), i 60 metri di distanza (a 412 di altezza) tra i tetti delle torri camminando avanti e indietro, per 8 volte (45 minuti), sopra un cavo d’acciaio dallo spessore inferiore a 4 centimetri. Passati quarant’anni, e dopo il documentario Man On Wire – Un Uomo Tra Le Torri (Man On Wire; James Marsh, 2008), la temeraria impresa di Petit viene portata su grande schermo da Robert Zemeckis, regista, produttore e sceneggiatore di The Walk, ennesima raffigurazione della solitudine dell’artista e della permeabilità tra possibile e impossibile da parte di un cineasta che non ha mai smesso di raccontare, in tanti modi diversi, la libertà, l’autonomia e l’indipendenza degli esseri umani.

The Walk (2)
Joseph Gordon-Levitt e Robert Zemeckis sul set

Dopo la parabola autodistruttiva, e visivamente classica, del sottovalutato Flight (2012), Zemeckis abbandona la motion capture degli ultimi progetti – Polar Express (2004), La Leggenda di Beowulf (Beowulf, 2007) e A Christmas Carol (2009), tutti da riguardare con attenzione – per dirigere una storia vera, riadattata con qualche libertà, e trasportare in Québec la Francia della giovinezza di Petit (la Charlotte Le Bon che incarna Annie, la sua compagna di quegli anni, è canadese), nonché rimaneggiarne il profilo (desunto da Toccare Le Nuvole [To Reach The Clouds], volume autobiografico scritto dallo stesso funambolo nel 2000 e pubblicato da noi, per Ponte Alle Grazie, la stagione successiva), con il consenso dell’interessato. Nonostante l’origine verista, The Walk sembra comunque una summa teorica di tutto il cinema del regista di Chicago, un’opera quasi completamente astratta sullo scarto tra la realtà dei sensi e lo slancio visionario di un artista dell’equilibrismo, un trattato sull’avanguardia tecnologica della visione così personale, concettuale e sperimentale da chiedersi quale pubblico possa apprezzarne le numerose virtù e i comunque non pochi punti deboli (e infatti in patria, per il momento, è stato un tonfo disastroso al botteghino). Come al solito, a Zemeckis non interessano le psicologie dei personaggi, tutte frettolose e poco credibili (quando non macchiettistiche), ma solo la motivazione anarchica, creativa e individuale dietro a un gesto assoluto: The Walk procede a passo di carica verso l’impresa di Petit sacrificandone il vissuto in bozzetti di provincia (tremendi i successi americani di Leonard Cohen e Nancy Sinatra qui proposti in francese) e in scenette pseudo-comiche, relative al reclutamento dei complici e allo studio di quel che il protagonista chiama le coup («il colpo»), dove la mano del regista appare spesso superficiale, come se fosse impaziente di sbarazzarsi d’una zavorra narrativa ritenuta inutile per arrampicarsi sullo spazio aereo tra le torri, finalmente libera di volteggiare, inabissarsi e risalire tra i fotogrammi di una straordinaria metafora sull’atto di creare un film.

Philippe Petit, 1974
Philippe Petit, 1974

Lo diceva Philippe Petit («Sono un regista con a disposizione il minuscolo palcoscenico del mio cavo»), e lo ribadiscono Zemeckis e il suo straordinario direttore della fotografia Dariusz Wolski orchestrando venti minuti di immagini da mozzare il fiato, in cui la multidimensionalità di un 3D (sarebbe meglio vederlo in Imax, ma in Italia non è possibile) altrimenti inutile per tutto il resto del film riesce a trascinare lo spettatore nella stereoscopia dell’altitudine, in un virtuosistico stereogramma del vuoto, nella polarizzazione circolare di un cielo perforato dalla danza silenziosa di un corpo umano: il senso di vertigine inseguito dall’acrobata e dai suoi fiancheggiatori corrisponde alla messa in scena un set cinematografico consacrato allo spettacolo orizzontale, come il nastro della pellicola, a uso e consumo di un pubblico indeciso tra la meraviglia e il terrore, come le platee davanti ai primi cortometraggi dei fratelli Lumière. Il californiano Joseph Gordon-Levitt, nei panni di Petit, è bravissimo a simulare un accento francese che minuto dopo minuto diventa una parlata americana goffa, e il montatore Jeremiah O’Driscoll, collaboratore abituale del regista, fa i salti mortali per imprimere a The Walk un ritmo lento, disteso, quasi favolistico, inevitabile (data la necessità di spazio percettivo affinché gli occhi possano abituarsi al 3D) ancorché gestito con la sicurezza dei maestri. Ma questi, in fondo, sono solo dettagli, come dettagli sullo sfondo rimangono, purtroppo, altri temi portanti quali l’inadeguatezza di Petit nel dare continuità alla propria vita privata o la misura umana dei personaggi di contorno. Il cuore di The Walk e dell’obbiettivo di Robert Zemeckis è ancora una volta dentro l’emozione della sfida alle leggi della fisica e della gravità, dentro la palingenesi dal quotidiano al virtuale. Un brindisi, insomma, alla forza espressiva dei sogni. E del cinema.

Gianfranco Callieri

 

THE WALK

Robert Zemeckis

USA – 2015 – 123’

voto: ***1/2