Era un giorno di sole splendente quel dì che nel 1993, me lo ricordo come fosse ieri, acquistai pressoché in diretta all’ascita nei negozi Everyday, il terzo disco e primo da me posseduto dei Widespread Panic – uno di miei gruppi preferiti dell’epoca e uno di quelli che è valsa la pena seguire attraverso gli anni: dischi sempre di grande spessore, un leader e autore come John Bell che è di quelli i quali di così eclatanti se ne trovano difficilmente e sopratutto la leggenda che nel tempo li ha avvolti in termini di performance live – tolgo la parola a chiunque li releghi a mera jam-band, sia chiaro! Adesso tocca Street Dogs, il dodicesimo album di studio dei ragazzi di Athens, Georgia (esclusi i due con il povero Vic Chesnutt): John Bell è sempre il capo di tutta la faccenda, con Jimmy Herring in pianta stabile alla sei corde dopo tanto vagare fra Col. Bruce Hampton, Jazz Is Dead, Phil Lesh & Friends, Frogwings, Derek Trucks Band e Dio solo sa quanto altro.
Meglio dirlo chiaramente – il disco non convince. Non che i Panic si siano messi a fare musica diversa di quella che li ha resi a dir poco irreali – il loro magnifico cocktail di Allman Brothers, di Santana vecchia maniera, di Talking Heads, di Grateful Dead, di minaccioso southern gothic e di surrealismo freak non è venuto meno – il vero problema di Street Dogs è che tutto sembra fatto di fretta, monocorde, prolisso e ripetitivo, l’esatto contrario della loro musica migliore, che in quasi trent’anni resta comunque tanta. Anche John Bell, uno che quando entra in una stanza occupa tutti gli spazzi tale ne è la personalità, sembra che in tutti i dieci pezzi vivacchi con il freno a mano tirato – il rendimento vocale è decisamente troppo compassato e addirittura stanco mentre, a una prima rapida analisi, anche i testi non hanno quella vena di lirismo figlia di Jim Thompson e di William Faulkner che lo hanno reso grande e che, per dirne uno, non fanno invidia a quelli di Nick Cave, a volerlo paragonare con qualcuno che si muove ad altre longitudini musicali e che soprattutto ha un’altro tipo di pubblico ma che si abbevera alle stesse fonti.
In Street Dogs del buono, a cercare qui e là, si trova anche – tipo Street Dogs For Breakfast che è un bel viaggio senza pensieri nel Sud degli States, Angels Don’t Sing The Blues che a dargli tempo potrebbe diventare un classico dei loro splendidi concerti (lo stacco a metà è pressoché identico a uno dei loro bran più epici, Pleas) oppure Seven’s Cat, Sell Sell e sopratutto The Poorhouse Of Positive Thinking, con quella bella linea melodica che fa sentire e vivere “la strada” come la intendono i veri “road warrior”, tutti brani con il marchio registrato Panic. Il dubbio sovviene quando si incontrano i cosiddetti “filler”, i riempitivi che non fanno onore a una storia come quella del gruppo: Cease Fire è un finto-Santana senza né nerbo né fantasia, Jamais Vu (The World Has Changed) gioca a fare i Dead ma non ci riesce, per non parlare delle varie Welcome To My World, Tall Danger e Honky Red che sono dei blues-oni di grana grossa e di poca sostanza.
Sia chiaro, i Widespread Panic il proprio garantito posto al sole se lo sono guadagnato già da un pezzo – ed è anche lecito che, dopo tre decenni di musica al massimo dei livelli, un momento di stanca possa anche arrivare – e con Street Dogs è arrivato, ahinoi. Riponiamo imperterrita speranza che prima o poi giungano a suonare in Europa e in Italia – allora sì che non ve ne sarà per nessuno, con punto-gioco-set-match a favore di una macchina da guerra live che del Panico Diffuso ha fatto il proprio verbo.
CICO CASARTELLI
WIDESPREAD PANIC – Street Dogs (Vanguard)