Anche a rischio di scandalizzare qualcuno, qui lo scrivo e sono pronto a riaffermarlo sempre: i miei di Pink Floyd preferiti sono David Gilmour e Richard Wright, non Roger Waters né Syd Barrett com’è invece per molti. Di Wright il come/perché lo spiego, magari, un’altra volta – David Gilmour invece ci vuole poco a raccontare perché: il chitarrista è il più folkie dei cinque, il più rilassato, il più rilassante e anche quello che, a mio avviso e quasi sempre con Wright, ha messo o firma o voce o tutt’insieme alla musica che più mi piace del gruppo di Cambridge. E aggiungo pure che di Syd è colui il quale se ne prese più cura: gli produsse i dischi solo e ogni qual volta che i Floyd hanno pubblicato materiale antologico e live Gilmour non hai mai fatto mancare che vi fosse musica del Diamante Grezzo, giusto perché non gli venisse mai meno se non altro il sostentamento delle royalties. Tant’è, se gliene fregasse a qualcuno ecco spiegato perché David Gilmour è il Pink Floyd che più apprezzo.
Dal vivo David Gilmour è una garanzia – gli spettacoli cui ho assistito fra Pink Floyd e sue sortite solo sono quanto di meglio cui presenziare se si è fan del monolite PF – magari prevedibili ma certamente eccezionali a livello di riproduzione e di impatto visivo – e una menzione speciale qui se la meritano Guy Pratt e l’ex Roxy Music Phil Manzanera, con il leader perno della band. Da sottolineare, poi, che i suoi dischi in proprio, quattro finora, non sono certamente ornamenti – Rattle That Lock, in uscita fra qualche giorno (trovo comunque assurdo che il tour inizi prima della pubblicazione del lavoro), presentato per sette/decimi già al primo impatto suona più che ricercato sebbene classico in termini Gilmour/Floyd – altresì se il giudizio non è corretto darlo adesso, almeno un paio di momenti sono parsi davvero intriganti ossia il brano guida e la splendida A Boat Lies Waiting, quest’ultima dedicata a Richard Wright e nella quale abbiamo colto il significativo verso-epitaffio «It’s like goin’ to the sea/There’s nothing», metafora del sonno eterno che ha avvolto il vecchio amico e compagno di musica.
Il capitolo Pink Floyd è affrontato con un bel greatest hits dove non possono mancare Wish You Were Here – lambita con languide carezze quasi country – Money, Us And Them, High Hopes – per il quale va la pena di spezzare una lancia: sarà anche un pezzo dei Pink Floyd monchi di Roger Waters ma suona davvero come un brano di quelli che si fanno apprezzare alla lunga, e pure molto – Shine On You Crazy Diamond, Run Like Hell – con il simpatico siparietto di tutta la band con occhiali Blues Brothers – Time, Breathe e Comfortably Numb – messa cantata e iper suonata facile da pronosticare ma non per questo poco emozionante, anzi – tipo quando si assiste a un film di 007 o un episodio di Star Trek, sai cosa ti attende ed è proprio lì che risiede il bello della faccenda.
Probabilmente in ossequio a Richard Wight niente Echoes – conosco gente che è sempre andata a vedere Gilmour solo per ascoltare il magnus opus di Meddle (1971) – ma non mancano due perle che fanno felici i rispettabili Floyd-iani più esigenti: Fat Old Sun, il Gilmour forse più memorabile e magnificamente folk sebbene qui arrangiato con una scintillante coda di chitarra elettrica, e Astronomy Domine più breve ma pari-pari all’originale di The Piper At The Gates Of Dawn (1967), giusto a ribadire il rispettoso legame dell’artista con Syd Barrett di cui si è già narrato righe sopra.
CICO CASARTELLI