Saluti dalla Festa dell’Unità

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Saluti dalla Festa dell'Unità (1)«Cara Signorina Gelsomina, la saluto col pensiero dai corridoi della Festa dell’Unità di Bologna, dove a volte ci siamo recati negli anni scorsi e dove anche in questa stagione ci eravamo ripromessi di fare una passeggiata. Si ricorda di quante discussioni abbiamo intavolato, nei mesi passati, sulla trasformazione subìta dalle Feste dell’Unità all’epoca della rottamazione galoppante? Sulle Feste dell’Unità all’epoca di Matteo Renzi, segretario del PD, e del suo tesoriere Francesco Bonifazi, poco citato ma influentissimo? “Le Feste dell’Unità,” mi diceva Lei, “sono il simbolo della presenza politica sul territorio, la traduzione, da parte della società civile, dei militanti e dei cittadini, tutti radunati sotto un’unica bandiera, del tempo libero in cultura e volontariato. E assieme alle poche Case del Popolo rimaste, rappresentano l’unica associazione di massa d’ispirazione laica, dove alcuni temi fondamentali – il diritto alla cultura e all’istruzione, l’inclusione sociale, i diritti, la solidarietà e la non violenza – dimenticati o trascurati dalla politica vengono affrontati con entusiasmo, continuità, spirito ideale”. E io ero d’accordo con Lei, sa, lo sono ancora, soprattutto se penso a quella cosa che, dal dopoguerra a oggi, abbiamo chiamato, in modo forse un po’ altisonante, “sviluppo associativo”, un’idea tenuta a battesimo proprio in una Festa dell’Unità – la prima, organizzata a Mariano Comense nel 2 settembre del 1945. La Festa dell’Unità: la festa di un quotidiano comunista, allora definita “grande scampagnata”, con Giancarlo Pajetta e Luigi Longo sul palco a stringersi con il cappellano di una formazione Partigiana, le corse podistiche, i balli, le gare a premi e il cibo, entrambi modesti perché la guerra era finita da poco e c’era l’esigenza di razionare su tutto. E mi trovo qui, a fare due passi al Parco Nord, alla Festa dell’Unità, e mi sembra di camminare in mezzo ai ricordi e di vederli sbiadire tendone dopo tendone, evaporare tra gli stand dei concessionari d’automobili, scolorire tra le insegne di un enorme ristorante a cielo aperto sormontato dalla celebre ruota panoramica. E si potrebbe dire, Signorina Gelsomina, che non bisogna razionare più nulla e non c’è alcuna barriera linguistica o generazionale, etnica o territoriale, da queste parti, poiché chi lo vuole può rifocillarsi alla tavola calda romagnola, indiana, bavarese, araba, brasiliana, greca, cubana, spagnola, argentina, messicana e perfino domenicana. Ci pensa? Il giro del mondo in una ventina di posti ristoro. Senza dimenticare il ristorante toscano, quello senese, le ricette della Bologna antica, le tradizioni degli anni ’70, la polenta montanara, le osterie, il pesce, le fiaschetterie, i vini piemontesi, il chiosco della frutta e quello delle caramelle, i lime-bar itineranti, gli spacciatori di cocktail assortiti e addirittura un banchetto da gourmet organizzato dal Gambero Rosso. Agli incontri sulla letteratura ci sono più relatori che spettatori, e ai dibattiti coi politici quasi solo addetti ai lavori (mentre tutti gli avventori occasionali vanno alla ricerca dell’ultimo morso o si informano su quale finanziamento potranno ottenere per l’acquisto della prossima autovettura). Ma questo lo dico sottovoce perché non vorrei essere arruolato nell’esercito dei “gufi” o dei “rosiconi”. Però, Signorina Gelsomina, mi chiedevo davvero se di fronte a tutta questa abbondanza stessimo meglio o peggio, e soprattutto se, una volta scomparsa per ragioni anagrafiche la moltitudine di volontari ancora pronti a dedicare parte della propria vita a iniziative simili (alla concezione del bene comune come risorsa collettiva, ecco, prendendo magari solo un gettone per il lavaggio dei piatti e una pacca sulla spalla per servire ai tavoli), avremmo potuto contare su di un ricambio generazionale. Mi sono seduto al tavolo della Pasticceria Savena, ho preso una birretta e ho sfogliato un quotidiano, in cui ho potuto leggere di come la Festa dell’Unità di Milano, chiamata #cechidicesì (“c’è chi dice sì”?!… col cancelletto del telefono davanti?!), sia stata definita “il simbolo del cambiamento del PD”, con il segretario Renzi pronto a dire “per fortuna non somiglia alle feste emiliane di un tempo”. Pensi un po’, Signorina Gelsomina, che per me quelle feste erano l’espressione più sana e genuina del sentirsi parte di una base sociale, di una lotta comune, di una relazione inestricabile tra identità nazionale e centralità dei territori. Brisa zighèr såura ai sdûz, però, io, in mezzo a questi cambiamenti, mi sento disorientato. Vada per le correzioni democratiche del comunismo, e passi aver perso ogni legame col vecchio PCI, ma questa mi sembra, anziché la Festa dell’Unità, un raduno democristiano (manca solo d’incontrare la buonanima di Amintore Fanfani) dove ogni diversità, anche biologica o culinaria, viene annacquata nel nome di una generica compatibilità con un’idea di progresso, e di futuro, alla quale non so se ho voglia di abituarmi. Non so se ho voglia di dire sì. Anzi, più spesso vorrei dire no e sbattere i pugni sul tavolo. Qui si mangia a quattro palmenti mentre in tutto il mondo aumentano disagio, deregolamentazione e disoccupazione. E mangerei anch’io, ch’a s’intindàggna, avrei voluto una crescentina e ora, di posti da crescentina, me ne trovo tre, e non so neanche più dove andare. Quindi affretto anch’io e me ne vado: vado avanti, come dice Renzi. Non importa dove. Da qualche parte dove ci sia meno confusione, dove non mi parlino delle “riforme che servono al paese”, dove non mi vogliano indottrinare sulle “grandi sfide del nostro tempo”! Magari in una Festa di provincia, dove la crescentina è una cosa seria, è una sola e pure buona. E dove finché sarà possibile, se vorrà venire, mi piacerebbe invitarLa, Signorina Gelsomina».

 

FESTA DELL’UNITÀ (o Festa Democratica?)

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