Di imperi ve ne è stati tanti, da quello Sacro & Romano a quello Nipponico passando per quello Britannico – e vi fu quello che impose David Geffen nel giardino dorato della California anni Settanta. Il seducente, molesto Geffen fu così scaltro che si circondò del meglio che passava il convento: l’adorata Laura Nyro, Crosby Stills Nash & Young, l’adorato Jackson Browne, a un certo punto pure Bob Dylan, Gene Clark (con cui ebbe un epocale alterco), l’altra adorata Joni Mitchell, Warren Zevon, Linda Ronstadt, Tom Waits, fino a raggiungere il massimo trionfo commerciale con gli Eagles. E naturalmente pedina fondamentale del lotto fu J.D. Souther – che non aveva né la presenza di Jackson né la bizzarria di Tom né la voce per entrare nelle Aquile ma aveva le canzoni, e Dio solo sa che canzoni! Senza fare la lista della spesa, basti pensare che Faithless Love per tutti associata con la Ronstadt oppure tutta una serie di intramontabili numeri degli Eagles (The Best Of My Love, New Kid In Town, The Sad Cafe, Heartache Tonight) in principio sono inchiostro della sua magnifica penna.
Pur non avendo conseguito il successo dei suoi fraterni amici (Glenn Frey), delle ex fidanzate (Linda appunto) e dei vari colleghi, J.D. Souther comunque si è ritagliato una piccola, gran carriera che ha portato alcuni magnifici album, fra i migliori dell’Impero Geffen, cominciando dal perfetto Black Rose (1976) che davvero dovrebbe stare in qualsiasi collezione di dischi che si rispetti. Dopo gli oltre vent’anni di esilio, scommettiamo dorato viste le royalties come se piovesse che probabilmente gli entrano in tasca ogni tot, J.D. negli ultimi otto-nove anni ha ritrovato la voglia e, sorpresa, ha iniziato a pubblicare nuovi album, tutti di gran livello – i quali dimostrano che sì, la sua lunga corsa non si è mica fermata. Anzi, adesso giunge in porto Tenderness – ridi e scherza, fra i dischi più belli del 2015 che assicuriamo è capitato di ascoltare da queste parti.
Tenderness è veramente un gioiello, dall’inizio alla fine non vi è infilato un filler che sia uno. J.D. Souther ha una qualità di scrittura a dir poco splendida, cui peraltro rende un gran servizio la sua maturata vocalità – non è questione d’estensione ma d’interpretazione, e i pezzi di Tenderness li può interpretare al meglio solo il proprio autore. Il country-rock evoluto degli anni giovani è un bel ricordo – il tardo J.D. gioca fra le pieghe di un jazz ben manipolato, lui che jazzista chiaramente non è, il quale mette in risalto i particolari di una penna sofisticata, capace di veri e propri scatti di classe come Downtown (Before The War) – che i fan di Joe Henry si diano uno scossone, e non si facciano perdere un numero così – Something In The Dark, This House oppure Let’s Take A Walk, segno che quando un artista è baciato dall’illuminazione non importa se abbia venti o sessant’anni – peraltro quella di quest’album è musica per tutte le età, basta avere solo il gusto di apprezzarla. E a dirla tutta, Tenderness contiene una serie di numeri che tanto belli a gente come James Taylor o Joni Mitchell sono decenni che non gliene sentiamo mettere in un disco a qualità media così alta.
CICO CASARTELLI
J.D. SOUTHER – Tenderness (Sony Masterworks)