Perdonate il tono serafico ma se scappa l’idea di fare un disco di cover, dietro ci deve essere un’idea e soprattutto chi le cover le propone deve sapere cosa stia facendo e perché – non che si debba tirar fuori sempre capolavori del livello Nick Cave & The Bad Seeds, Bryan Ferry, Nico, Giant Sand, David Bowie, Bob Dylan, Laura Nyro o Tex Perkins, tutti autori di dischi di cover che sono pura eccellenza, ma le cose tanto per farle è semplicemente meglio non farle. Tipo come accade ora con Sam Bean aka Iron & Wine, uno dei migliori artisti americani apparsi sulla scena nell’ultima dozzina di anni, il quale per Sing Into My Mouth si è messo in coppia con Ben Bridwell, il leader dei Band Of Horses – operazione che francamente, udito il risultato, non decolla.
Sing Into My Mouth è un disco che può far eccitare i brufoli di qualche pivello indie – chi invece conosce gli originali non può altro che riservare freddezza, a dir poco. La prima cosa che salta all’orecchio è come i due abbiano un tono di voce pressoché identico, la qual cosa già lascia perplessi e rende troppo omogeneo l’esito – poi con più ci si addentra nel disco, si finisce in un sound molto stereotipato se non a larghissimi tratti ripetitivo fino alla noia, sebbene il repertorio scelto sia anche stato scartabellato in modo oculato: Bonnie Raitt, Talking Heads, J.J. Cale, John Cale, David Gilmour, Marshall Tucker Band, Sade, Ronnie Lane, Peter La Farge, Spiritualized, El Perro del Mar e Them Two, ossia pesca di qui e di là fra spazio-tempo-luogo. This Must Be The Place (NaÏve Melody), uno dei grandi capolavori di David Byrne con i Talking Heads, è il pezzo esemplificativo perché questo disco gira male: la formuletta di prendere quello che sembra tutto tranne che un numero cantautorale e infarcirlo di vellutati suoni roots lascia il tempo che trova – «piedi piantati a terra, testa al cielo», come recita il brano, mica troppo – e se cover dev’essere, consigliamo di ripescarsi le belle versioni fatte dai Lumineers e dagli String Cheese Incident. Lo stesso valga per Bulletproof Soul della perla nera Sade, qui rigirata in modo svenevole, oppure Magnolia di J.J. Cale, pastrocchio indie che ti fa venir voglia di ascoltare l’originale cento volte di fila per dimenticare. Tutto da buttare, quindi? Da buoni taoisti che siamo, nel nero riusciamo a trovare del bianco (o viceversa, fate voi): pur non valendo chiaramente l’originale di Fear (1974), You Know Me More Than I Know è un bell’esercizio che rende onore all’inusitata bellezza del brano di John Cale – e stesso discorso vale per There’s No Way Out Of Here, antica gemma del primo, omonimo disco in solo (1978) di David Gilmour, peraltro non a firma dell’uomo Pink Floyd bensì dell’oscuro Ken Baker. Per il resto, ci auguriamo che soprattutto Sam Bean aka Iron & Wine torni presto a volare come nei suoi dischi più belli, Our Endless Numbered Days (2004) e Ghost On Ghost (2013).
CICO CASARTELLI
IRON & WINE AND BEN BRIDWELL – Sing Into My Mouth (Brown Records)