Ex_ Machina: il cuore degli androidi

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Ex-Machina
EX_MACHINA, locandina originale

In genere fraintesa o utilizzata a sproposito, la locuzione «deus ex machina», latina ma derivante dal greco, indicava i personaggi delle tragedie di Euripide, Eschilo o Sofocle cui era attribuito il compito di sciogliere o risolvere un intreccio ormai annodato in modo inestricabile: non, quindi, l’artefice o il creatore (come di solito si intende), bensì, alla lettera, «la divinità dalla macchina», il dio che scende nell’arena del racconto per mettere a posto le cose. Nell’esordio dietro la mdp dello sceneggiatore londinese Alex Garland, non ci sono dei, solo uomini intenti a trasmettere la vita all’interno di corpi meccanici per osservarla, valutarne le possibili implicazioni emotive e analizzarne gli impliciti dilemmi morali. Un giovane programmatore, grazie a un premio vinto in azienda, ha l’opportunità di trascorrere una settimana nell’isolato casolare dove vive il suo superiore.

Questi, un irriconoscibile Oscar Isaac (qui rasato e barbuto, e ben più mefistofelico dello sbandato folksinger diretto dai fratelli Coen in A Proposito Di Davis [Inside Llewyn Davis, 2013]), ha costruito un androide dotato di intelligenza artificiale e fattezze umane: l’impiegato ha il compito di sottoporlo a un test di Turing – il cartesiano «gioco dell’imitazione» elaborato dal matematico inglese negli anni ’50 – per verificare se la macchina sia davvero in grado di pensare, soffrire, desiderare. L’automa, tuttavia, possiede fattezze (affidate ai lineamenti della svedese Alicia Vikander) alle quali il timido dipendente non resta insensibile, e sembra ricambiarne la tentennante attrazione. È un sentimento reale? Lo si può vivere? E perché il robot è modellato proprio sul tipo di donna apprezzato da Caleb (Domhnall Gleeson), introverso, solitario, senza famiglia e senza un amore? Chi è il vero soggetto dell’esperimento? Al regista le domande interessano più delle risposte e, come già accadeva in Non Lasciarmi [Never Let Me Go; Mark Romanek, 2010], da lui sceneggiato a partire da un romanzo di Kazuo Ishiguro, la domanda più importante pare essere cosa potrebbe accadere, in un futuro stavolta né distopico (negativo) né ucronico (alternativo), ai sentimenti degli eventuali cloni umani se costoro stabilissero un legame emotivo con creature in carne e ossa. Se però nelle precedenti sceneggiature del regista il ricorso a materiali di genere (si veda il dittico horror 28 Giorni Dopo [28 Days Later; Danny Boyle, 2002] / 28 Settimane Dopo [28 Weeks Later; Juan Carlos Fresnadillo, 2007]) o a espedienti melodrammatici (il citato Non Lasciarmi) scongiurava la rigidità del teorema, durante la visione di EX_MACHINA si ha invece l’impressione di assistere a una partita a scacchi con l’intelligenza e le aspettative dello spettatore, in una schermaglia a tratti senz’altro affascinante sebbene altrettanto spesso fredda e respingente. La fantascienza di Garland, d’altronde, non è quella carnale, muscolare benché gonfia di interrogativi, di James Ballard o Robert Heinlein; si tratta piuttosto di un flemmatico assortimento di luci artificiali e paesaggi nordici (gli esterni del film sono stati girati nelle valli norvegesi), glaciale progettazione d’interni e dialoghi raffreddati, inquadrature di composizione geometrica e tecniche di modellazione tridimensionale. Il quesito morale del film non è diverso dalla vecchia domanda di Philip Dick, quando lo scrittore di Chicago si chiedeva se gli androidi sognassero «pecore elettriche», eppure Garland si dimostra in grado di arricchire il processo di emancipazione delle macchine con sfumature personali, all’inizio drammatiche per malinconia e minuto dopo minuto sempre più cariche di disagio e minaccia.

A lasciare perplessi, al contrario, è la banalità del pastiche filosofico e visivo utilizzato per dispiegarlo, un mare di riferimenti, saccheggi e citazioni che va dallo (scontato) Stanley Kubrick di 2001: Odissea Dello Spazio al Michael Gottlieb di Mannequin (dove, nel 1987, Andy McCarthy s’innamorava del manichino Kim Cattral, da lui stesso creato), dal fumetto franco-belga di Roger Leloup (chi possiede gli albi dedicati alla saga di Yoko Tsuno può rileggere i volumi 18 e 21, intitolati Les Exilés De Kifa e La Porte Des Âmes) alle teorie del cosmologo e neuroscienziato britannico Roger Penrose, dal post-punk affilato delle Savages (sui titoli di coda si ascolta l’ansimare della loro Husbands) alle morbide sonate pianistiche di Franz Schubert (senza dimenticare un frammento, targato 1980, degli Orchestral Manoeuvres In The Dark di Enola Gay). Potrà anche essere divertente considerare come lo schema del duello (etico e fisico) tra due sconosciuti, ognuno con un piano diverso in tasca, rimandi addirittura alla crudeltà inarrivabile del Joseph L. Mankiewicz degli Insospettabili, o quanto i discorsi sulla programmazione della coscienza di un androide di sesso femminile siano debitori di Ghost In The Sell, il capolavoro di Mamoru Oshii nel 1995 tratto dai manga a cavallo tra poliziesco e cyberpunk di Masamune Shirow. Ma si tratta, appunto, di un gioco. E in un film come EX_MACHINA, così ossessionato da amore, sogni, rabbia, paura e ansia di libertà, tutte cose molto umane e poco ludiche, ha il vizio imperdonabile di appesantire il racconto anziché renderlo più agile.

Gianfranco Callieri

EX_MACHINA

Alex Garland

Uk – 2015 – 108’

voto: **1/2