Rudy Marra, appena entrato nei cinquant’anni anche se non si direbbe, si può tranquillamente affermare che con sé si porta appresso sempre belle musica e parole che lasciano il segno come pochi altri autori della musica italiana. Ha appena pubblicato il suo secondo libro, Le facce, che fa da tema conduttore del suo imperdibile spettacolo dal vivo. Insomma, con lui i temi non mancano, fra grandi dischi che è bello “rivivere” attraverso le sue parole, l’esperienza a Sanremo dei primi anni 90, Enzo Jannacci, Dana Colley dei Morphine e tanto altro, Marra si racconta: vale proprio la pena starlo ad ascoltare.
Per cominciare, una domanda che ti avranno fatto in tanti: com’è possibile che Rudy Marra da metà anni 80 a oggi abbia inciso solo tre dischi di studio e uno dal vivo? Sei tu allergico alla discografia o è la discografia che non ti ha dato il giusto credito?
“Pensa che io scrivo da sempre una media di una cinquantina di canzoni all’anno, avrei potuto fare almeno tre dischi per ogni stagione di cui almeno uno doppio! In Italia ne ho fatti tre ufficiali, poi un altro uscito solo su territorio francese, una specie di raccolta dei primi due con tre inediti, e infine un bootleg live per un’occasione speciale mai messo in commercio, ma distribuito brevi manu ai miei concerti. Mi chiedi il perché… Non lo so. Una serie di fattori. La mia pigrizia innanzitutto, ma non, come detto, una pigrizia lavorativa, solo un rifiuto mentale di entrare in certi meccanismi che la discografia italica richiede: telefonate, incontri, colloqui e conoscenze, coltivare rapporti nel mondo della musica e in quello extra-musicale. A pensarci bene non ho mai chiesto a nessuno di farmi fare un disco, c’è sempre stato qualcuno che me l’ha proposto, o quanto meno è stata cosa nata per tacito accordo. Nel corso di trent’anni di carriera ho avuto molti discografici, ho interagito con tanti manager, producer, alcuni editori, tantissimi giornalisti, speaker radiofonici, ma mi ricordo i nomi solo di un paio di questi, le facce dei più mi sfuggono. La cosa bella che oggi con l’esplosione dei social mi ritrovo un sacco di gente che sostiene di avermi scoperto, qualcuno dice di avermi inventato, almeno supportato, accompagnato, sostenuto, trasmesso, intervistato e io faccio finta di ricordarmene mentre in realtà nebbia totale, se non labile reminiscenza di qualche fugace rapporto. Qual era la tua domanda? Ah, perché ho fatto pochi dischi… Non saprei, una serie di motivi, ma credo soprattutto perché quelli che ho fatto non hanno venduto granché, molto apprezzati, direi osannati, da una ristretta fascia di critica e pubblico, ma nessun exploit di massa, per cui non si è insistito troppo nella produzione in studio”.
Come tutti coloro che ti conoscono sanno, tu partecipasti al Festival di Sanremo nel 1991: che ricordo hai di quell’esperienza?
“I ricordi, belli o brutti che siano, sono legati imprescindibilmente, direi per antonomasia, al fatto di esseri ricordati. Io ho una memoria di quel periodo a dir poco precaria. Un vortice di facce, parole, luoghi, situazioni ed episodi che si rimescolano tra fantasia e realtà, un po’ come nella nebbia romagnola dell’Amarcord felliniano. Ho vissuto male tutti gli anni ’80 e ’90, non mi sono goduto niente e forse non c’era nulla da godersi, Sanremo compreso”.
Nella rete capita sovente di incappare in quella clip di Videomusic dove Enzo Jannacci ti fa complementi pubblici per Gaetano, il brano che portasti a Sanremo. Con il Maestro hai avuto frequentazioni o tutto è circoscritto a quel filmato? Peraltro, mi ha sempre colpito la spontaneità di come Enzo in quel frammento ti faceva i complimenti…
“Ci sono onde, energie, frequenze, livelli, dimensioni che non hanno bisogno d’incontrarsi fattivamente. Io conoscevo bene Enzo Jannacci, lo ascoltavo ancora coi calzoni corti alla radio di mio padre quando il Dottore cantava Vengo anch’io e mi sembrava il “più fuori” di tutti e per questo lo consideravo “più amico mio” di altri e lui ha conosciuto me sul palco dell’Ariston che cantavo Gaetano e sono sicuro che gli sono sembrato subito il “più fuori” di tutti e così mi ha considerato “più amico suo” di altri”.
A proposito di Gaetano, in almeno un paio di pezzi che ho scritto su di te nel corso degli anni, mi è sempre venuto spontaneo accostare il tuo brano a Vita spericolata di Vasco Rossi. Chiaramente i due brani sono assolutamente distinti ma a mio avviso vi è un’aurea che li accomuna, diciamo un mood che li avvicina. Cosa ne pensi?
“Ti basti solo pensare che Gaetano l’ho scritto nei primi anni 80, credo 1982 o 1983 anche se ha visto la luce in quel Sanremo del 1991 e in quel periodo Vasco in Italia aveva davvero fatto una rivoluzione musico-generazionale e come tanti altri, per la verità non tantissimi in quel periodo, ne ero stato preso dentro anch’io. Forse non tanto musicalmente, ma sicuramente sì a livello emozionale, nei modi di scrittura, del lessico, l’aurea simile che ci hai visto tu è indiscutibile”.
I tuoi primi due album sono prodotti da Mauro Spina, noto per il suo lavoro con Eugenio Finardi sopratutto ma anche Pino Daniele, Edoardo Bennato, Loredana Berté, Faust’o e tanti altri. So che per lui tuttora provi grande amicizia e rispetto artistico. Come nacque la vostra collaborazione?
“Mauro Spina è un mio fratello maggiore acquisito, il nostro rapporto va al di là della musica, del lavoro, sono due vite che si sono intrecciate a doppio nodo in tutti questi anni e che continuano a intersecarsi. La sua storia di musicista, di batterista dal modo “unico e personale”, così come di produttore artistico non convenzionale, sembra ricalcare la mia storia artistica. Osannato, lodato, apprezzato, mitizzato, ma magari meno popolare e conosciuto di altri nomi del carrozzone italiano, Ci ha fatto conoscere la Epic-Sony, etichetta con la quale dovevo affrontare il mio primo lavoro Come eravamo stupidi, nel 1990, e mi proposero il batterista di Edoardo Bennato che aveva fatto già qualche buon lavoro “alternativo” come produttore artistico. Il nostro incontro fu in un ristorante di Milano, con tutto il codazzo di manager, direttori artistici, editori, portaborse e via dicendo. Mi sciolse subito dicendomi che era un finto milanese, anche lui pugliese, seppur del foggiano, di San Ferdinando di Puglia. Ordinammo le stesse identiche pietanze, stessi gusti in fatto di cucina. Dopo la conoscenza personale si passò a quella musicale, tanto per capire se poteva esserci del feeling. Per una buona mezz’ora gli rifilai tutti i nomi della musica italiana, ed erano tanti, che “mi facevano cagare”. Chiusi dicendo che avevo sempre ascoltato pochissimo roba italiana, ero stato uno dei primi a formare una band punk nel sud Italia e che attualmente ascoltavo come un rosario solo Tom Waits, anzi no, solo Rain Dogs di Waits. Prima del caffè gli confessai che ritenevo Burattino senza fili di Edoardo Bennato il miglior concept italiano mai prodotto. Fece sapere al mio manager Marco Marati e alla Sony Music che su di me non aveva dubbi. Diventammo fratelli”.
Il tuo album Sopa d’amour del 1995 mi sembra faccia un po’ da spartiacque nella tua carriera – dopo di quello ci hai messo più di dieci anni a tornare con un nuovo disco. È un disco che ti porta alla memoria brutti ricordi?
“Fu il disco in cui portavo concretamente la mia convinzione che fare musica per generi era di una noia mortale oltre che frustrante per un artista che non aveva alcuna voglia di essere etichettato, catalogato, omogeneizzato. Sopa, inteso come zuppa, è la mia filosofia artistica, un miscuglio di influenze e di suoni dal mondo che, a secondo del momento artistico che personalmente vivo, tiro fuori senza farmi il problema a quale tendenza, onda, genere, chiesa e parrocchia appartiene e appartengo. In realtà non mi trasferii in Francia, ma ebbi la richiesta da parte di un musicologo parigino legato a radio France 2, una delle radio di Stato francesi, di pubblicare Oltralpe. Così con Alabianca per l’Italia e Last Call Records per la Francia facemmo uscire Le parole d’amore, una specie di best più tre inediti prodotto insieme a Stefano Melone, non a dieci anni di distanza da Sopa d’amour, ma a cinque o sei. Seguirono dei concerti parigini, alcune trasmissioni proprio per radio France 2. Sai con quale effetto? Si parlò entusiasticamente di me come di un musicista italiano che finalmente non andava scopiazzando né il rock anglosassone né il cantautorato italiano di successo in Francia, per intenderci il maestro Paolo Conte, e a parte questo scrivevano che avevo la faccia da “mascalzone italiano”, il che con il pubblico femminile funzionava”.
Il tuo ultimo album è C’è da bruciare tutto!, che è dal vivo ed è frutto di un tour con in tuoi M.O.B. dove ospite speciale era Dana Colley, l’ex sassofonista dei Morphine. Com’è nata l’amicizia con lui? E sopratutto che sensazione avevi a trovartelo di fianco sul palco? Io vidi i Morphine dal vivo più volte negli anni 90 e Dana, con i suoi sax alla Roland Kirk, era veramente un ciclone, aveva davvero un impatto devastante…
“Diciamo che è il mio ultimo album “non ufficiale”, mai messo in commercio, mai ceduto a etichette discografiche, solo coperto da edizioni, ma mai distribuito se non ai concerti e a chi lo richiedeva. Non si poteva non approfittare di un ospite tanto prestigioso venuto in Italia da Boston e che insieme al compianto Mark Sandman aveva dato vita alla band che più mi ha affascinato e contagiato negli ultimi dieci anni, i Morphine appunto. Cure For Pain, il loro album, lo ritengo un capolavoro assoluto, tra i miei dieci dischi preferiti di tutti i tempi. In realtà facemmo tutto molto in fretta e con pochissimi mezzi, quattro microfoni quattro buttati su un palco a Rubiera in provincia di Reggio Emilia e solo grazie alla passione dei ragazzi che avevano organizzato il concerto che come me ritenevano un delitto lasciarsi scappare il sax di Dana Colley a cui modestamente mi aggiungevo anche io e i M.O.B. Naturalmente nessuno della discografia italiana, nessuno dei manager e dei produttori “rock” di questo strano Paese. Risultato un documento quasi “punk”, come si registravano una volta i concerti nei club londinesi, rozzi ma con tutta l’energia necessaria. L’incontro con Dana nacque in una maniera molto banale con un appuntamento in Skype, da parte sua una sola richiesta, sentire la musica che facevo. Facemmo dei duetti incredibili on line improvvisando io con la chitarra a quattro corde lui con il suo sax baritono. Decise così di venire in Italia”.
L’ambientazione nel profondo sud americano del tuo nuovo libro Le facce è molto interessante: ovviamente questa può avere dei forti riferimenti anche con la musica che fai, che con il blues flirta molto…
“New Orleans, anzi N’Awlinz come dicono loro, è una città magica: è come se fosse il ventre materno, forse “matrigno”, l’ombelico di tutto il ritmo moderno che poi si è diffuso nel mondo occidentale. C’è Africa nera, francesi, italiani, americani, creoli, cinesi, c’è il mondo e quindi era inevitabile che ci fosse anche la pulsazione originaria. Tra i dischi per me importanti che prima ti ho elencato ne ho dimenticato un paio fondamentali di Dr. John, uno in particolare N’Awlinz Dis Dudda Or Dadda e ti ho detto tutto”.
Avendo letto entrambi i tuoi libri, oltre a riscontrare qualità di scrittura e di narrativa davvero non comuni, trovo un’interessante metamorfosi di approccio: dove il tuo primo libro L’utente potrebbe avere il terminale spento sembrava avere uno stile quasi metafisico, in Le facce tutto mi pare muoversi fra carnalità e ossessione…
“Come nella musica così anche nella scrittura sono insofferente ai generi, non mi piace avere un genere, mi annoio, ho bisogno di mettermi alla prova e sperimentare cose diverse. Nel primo romanzo volevo raccontare di comunicazione, comunità, comunione facendolo con un racconto surreale, quasi come fosse un libro per ragazzi, elementare in superficie, quasi ingenuo, ma accademico e scientifico andando nel profondo, sotto le righe, consiglio a tutti di rileggerlo almeno tre volte si scoprono meccanismi, metafore, sottintesi che a prima vista sfuggono, come sempre nessuna parola è messa a caso o per riempire dei fogli bianchi. Nel nuovo libro, un racconto volutamente breve, perché doveva essere la confessione intensa e viscerale di un paziente a colloquio con il fidato psicoterapeuta, una vera seduta di tre quarti d’ora al massimo, ho scelto di raccontare in maniera realistica la schizofrenia degli uomini, magari proprio quelli dotati di maggiore sensibilità, davanti all’imposizione sociale dell’esistenza di una sola realtà, di un solo modo di sentire, vedere, pensare, scrivere, dipingere…”.
Il termine “brutale” per descrivere certi tuoi aspetti artistici mi pare il più consono: anche qui, nel racconto, la brutalità delle atmosfere e della storia mi pare evidente…
Se per brutalità intendi il mio tentativo di evitare retorica, conformismo, manierismo, barocchismo culturale, allineamento artistico e ideologico, esercizi di stile, bigiotteria letteraria e musicale e via dicendo, allora hai perfettamente ragione: sono un bruto, anzi un mostro!
“Una curiosità, a proposito di brutalità: hai mai letto il racconto The Gift di Lou Reed, musicato dai Velvet Underground in Withe Light/White Heat?
Conosco molto bene la storia di Waldo Jeffers, innamorato quanto tormentato dalla sua Marsha e alla fine infilzato dalle forbici dell’amica Sheila nello scatolone in cui si era fatto spedire come un pacco postale. La genialità dei quasi dieci minuti di The Gift splittato su due canali, uno con il recitato di John Cale e l’altro con uno strumentale dei Velvet ha fatto parte della mia formazione “diversa”, non tanto musicalmente bensì quanto come propensione alla “follia artistica”, forse anche della mia brutalità”.
CICO CASARTELLI