Il Coincidentalista per antonomasia, Howe Gelb naturalmente, ci concede un incontro che va ben oltre la promozione di un disco del suo gruppo, il peraltro nuovo e splendido Heartbreak Pass – noi cogliamo la palla al balzo e lo affrontiamo con un’intervista a tutto campo a tratti rivelatoria, a tratti surreale e in ogni caso nel nome di una delle più grandi leggende della musica americana degli ultimi tre decenni: i Giant Sand. Tutto per parola, come si definisce lui stesso, di un «pigrissimo diligente bastardo»…
Heartbreak Pass è ben organizzato fra vecchi e nuovi amici – Wiston Watson, John Parish, Sacri Cuori, Jason Lytle dei Grandaddy, Steve Shelley dei Sonic Youth, Grant-Lee Phillips, i Common Linnets, Vinicio Capossela. È stato difficile mettere insieme un cast del genere?
È stato più facile che non provarci.
Se vi sono, quali artisti avresti voluto nell’album che non hai potuto coinvolgere? Se penso alla storia dei Giant Sand, tu hai collaborato con un numero infinito di musicisti…
La faccenda non è in questi termini. La gente coinvolta nel lavoro è lì perché è quello il percorso su cui si è formato l’album. Mi sarebbe piaciuto averne un migliaio di più di artisti ma il percorso è stato quello, e ci siamo mossi così.
Trent’anni di Giant Sand: Heartbreak Pass è una celebrazione che non pare “celebratoria”. Intenzionale?
Ogni giorno è una celebrazione, per me. Mettiamola così, il disco è una specie di “pausa” per riflettere su quanto accaduto negli ultimi trent’anni e domandarsi come tutto ciò possa essere accaduto. È una riflessione, anzi, una meditazione.
I grandi pezzi del disco sono molti – raccontaci di quello che forse è il mio preferito, Gypsy Candle: il background, l’ispirazione che vi è dietro. A me è apparso subito come qualcosa fra Hoagy Carmichael e Tom Waits…
Trovo molto premuroso da parte tua evocare Hoagy Carmichael e Tom Waits, davvero. Gypsy Candle inizia come molte canzoni iniziano, un ritratto di crisi esistenziale, tipo quando il tuo cuore sempre essere un indecifrabile puzzle – quando avere a che fare con quell’enigma è una specie di lotta con la scienza poetica. Se una canzone la fai con quel significato, essa stessa diventa parte della cura. Diciamo che diventa sia un esame sia un mantra – alla fine, una canzone diventa una preghiera, ed è quella l’intenzione dietro Gypsy Candle.
Ricordo che una volta mi raccontasti che il tuo maggior problema era la “mancanza di competizione” – puoi spiegare per i nostri lettori cosa intendi precisamente?
Io sono un pigrissimo diligente bastardo. Sono sempre stato allergico alla competizione. Trovo che la competizione sia in verità sofferenza. Meglio, una seccatura. La musica non dovrebbe mai competere. Quello che è competitivo è il tempo, sfortunatamente, perché non ve ne è mai abbastanza. Il suono di ognuno è un tratto distintivo, una specie di firma – com’è possibile che vi sia competizione in un tratto distintivo? La verità è che l’unica competizione è tentare la competizione, ed è il tempo a esserne colpevole…
Mi piacerebbe “tornare” al vecchio Howe adolescente. Chi furono i tuoi Bob Dylan o Velvet Underground – intendo, l’ascolto di chi ti fece pensare «voglio farlo anche io, voglio creare musica»? E perché?
I miei Bob Dylan e Velvet Underground per la verità furono esattamente Bob Dylan e Velvet Underground. Proprio loro servirono a ispirarmi fin del primo istante in cui li ho uditi.
Hai inciso così tanti album che oramai se ne perde il conto. Mi puoi raccontare cosa ti viene in mente se ti nomino i tre album dei Giant Sand che più mi piacciono? Inizierei con Ramp…
Quel disco ha a che fare con un’epoca di quando gli album erano davvero autonomi, erano loro a prendere la forma che volevano, noi eravamo semplicemente lo strumento. Ramp fu un disco praticamente acustico e in retrospettiva è stato giusto farlo così. Ritengo, però, che un brano come Neon Filler on fosse ancora maturo – la maturità è venuta fuori quando l’ho riadattato nell’album ’Sno Angel Like You (uscito a nome Howe Gelb, NdR) – diciamo che quel pezzo in Ramp ha “sofferto”, quindi. Ma gli altri brani dell’album li ricordo davvero per quello che sono: magnifici, gloriosi.
Continuo con Stromaufall…
Quello fu un disco acustico che venne fuori dalle session di Purge And Slouch. La parola “stromausfall” in tedesco significa blackout – l’intenzione era appunto togliere la corrente, rimanere senza corrente né luce.
Il terzo è sicuramente Chore Of Enchantment, che ti confesso essere il mio album preferito dei Giant Sand. Avere in session, fra gli altri, gente con il curriculum di David Mansfield dev’essere stato emozionante. E tra l’altro, in Chore troviamo anche il tuo brano più memorabile, Shiver…
Quello fu un album davvero difficile da completare, quasi una questione di sopravvivenza. Il racconto di come l’album fu completato potrebbe riempire un romanzo. O potrebbe essere tema di un’intera intervista. Accadde di tutto nell’anno speso a mettere in insieme quel disco. Il mio migliore amico morì di cancro all’inizio delle registrazioni e il mio gruppo si sfaldò quando finalmente lo completammo. Se guardi bene, Chore Of Enchantment ha ben tre co-produttori che si avvicendano accanto a me: John Parish, Jim Dickinson e Kevin Salem. E ti garantisco che fu Kevin in particolare a salvare tutto. Il lavoro lo iniziammo a Tucson, poi ci spostammo a Memphis e infine approdammo a Woodstock, in una specie di baita di proprietà di Robbie Robertson, sebbene Robbie non sapesse che stessimo registrando lì – lui a Woodstock ha diverse proprietà a locazione, compreso quel posto che appunto Kevin affittò per le registrazioni. Una vera avventura, insomma.
Tutti sappiamo che un amico e musicista che davvero ti manca è Rainer Ptacek. Se un ragazzino venisse a chiederti chi fu costui, cosa gli racconteresti?
Gli direi di attendere il libro che sto provando di scrivere su di lui. Rainer era il mio fratello maggiore, musicalmente e in ogni altro senso. Lui nacque a Berlino, nella parte DDR, ma con la sua famiglia scappò a Chicago lo stesso anno che io nacqui, pertanto mi piace dire che arrivammo in America nello stesso momento, lui in aeroplano e io di nascita. Nel 1972, casualmente, entrambi finimmo a Tucson e finalmente nel 1976 ci incontrammo. Io avevo 19 anni, lui 24 – e iniziammo seduta stante a creare musica.
Sempre in tema Rainer, fu difficile metter a punto il tributo Inner Flame con tutti insieme Jimmy Page, PJ Harvey, Vic Chesnutt, Robert Plant, Emmylou Harris, Even Dando? Personalmente lo trovo fra i più riusciti e sentiti album tributo che siano stati pubblicati…
Inner Flame davvero è quello che sembra. Ti garantisco che ho fatto nemmeno la metà dello sforzo che magari immagini per coinvolgere tutti quegli artisti. L’ho semplicemente messo insieme con sempre presente la magia di Rainer finché tutto ha funzionato a dovere – il processo è stato lungo, mi sembrava di essere infilato in un vicolo cieco ma quando Rainer è della partita raramente quei vicoli sono realmente ciechi.
Per molta gente i Giant Sand sono cuore e anima della musica rock Yankee apparsa negli anni 80, direi accanto ai Replacements, ai Gun Club, agli X, ai R.E.M., ai Wall Of Voodoo, ai Blasters, ai Sonic Youth, ai Minutemen/fIREHOSE, ai Los Lobos, ai Green On Red e ai Meat Puppets. La memoria di quell’epoca è nebbiosa o quella stagione la ricordi con affetto?
Ti garantisco che fu praticamente una guerra sonica. Le tendenze produttive degli anni Ottanta mi parevano terribili. Essenzialmente creammo della musica “incomprabile”, musica da lanciare là in mezzo come fosse una granata. Credimi, Tucson a quell’epoca era un posto molto remoto, non avevamo né radio né negozi di dischi. Non avevamo la minima informazione di ciò che avveniva nel mondo della musica, davvero. La cosa è così semplice, dovemmo solo creare il nostro sound.
So che recentemente hai fatto delle session con John Doe – per cosa, esattamente?
Lo sto aiutando a fare un album, che stiamo producendo assieme. John è sempre stato uno dei miei eroi musicali, fin del giorno che gli X arrivarono a suonare a Tucson nel 1980. Trovarmi a lavorare con John adesso è quindi una cosa che sto davvero adorando. In verità, non sono sempre a mio agio nel ruolo di produttore, nel senso che è molto difficile prendere decisioni lavorando con qualcun altro e dover aggiungere magari anche del proprio caos oppure rendersi di non averne aggiunto abbastanza. Per dire, con KT Tunstall ho provato a svuotare il più possibile la produzione, mentre con Sylvie Simmons la produzione ho tentato di mantenerla rigidamente “organica” e, se possibile, anche più minimale. Con John Doe, l’intento è stato quello di restituire l’energia che lui mi trasmetteva negli anni Ottanta.
So che sei buon amico di quello che per me è il più grande “rock and roll Joe” di sempre, John Paul Jones, l’ex Led Zeppelin. Posso immaginare che suonare accanto a lui dev’essere una vera esperienza…
L’unico vero momento problematico che ho avuto con certi personaggi, l’ho avuto con Bob Dylan. Ho avuto l’impressione che lui mi abbia dato già così tanto, che non avrei avuto davvero niente se non ci fosse stato lui – trovarselo davanti mi ha dato timore anche solo dirgli “ciao”. Per esempio, con Neil Young è stato tutto molto più piacevole – ci siamo fatti delle grandi risate. Mi sto comunque ancora chiedendo se sia Bob sia Neil sapessero chi io fossi. Questo per spiegare che John Paul Jones più che un “performer” è un “player” – pertanto è stato più facile averci a che fare. Ti do per certo che specialmente con il mandolino John Paul Jones è davvero un mostro, la sua tecnica ha dell’incredibile. La prima volta che l’ho incontrato è stato quando suonava con il mio amico Robyn Hitchcock, in occasione del festival Strade Blu in Romagna organizzato da un altro mio amico, Antonio Gramentieri dei Sacri Cuori. Tempo dopo John Paul Jones fu mio ospite in un concerto a Londra – è stato molto divertente disorientarlo mentre facevamo Slag Heap, uno dei pezzi del disco Tucson, dove molto deliberatamente continuavo a suonare una nota che gli pareva alquanto misteriosa. La cosa mi ha deliziato in un modo molto malizioso.
Un nuovo amico e collaboratore musicale italiano di recente è entrato nella tua vita, Vinicio Capossela. Che cos’hai trovato interessante in lui, artisticamente parlando, e che cosa riserva il futuro fra voi due, dopo la partecipazione di Vinicio in Heartbreak Pass? So che avete fatto delle session qui in Italia, a Calitri in Irpinia, alla fine dell’estate scorsa…
Lo scorso anno presi parte a un festival in una a me sconosciuta parte dell’Italia del sud, lo Sponz Fest di Calitri che appunto era curato da Vinicio. Fra le tante cose, ho accettato di suonarvi anche perché vi prendeva parte pure Robyn Hitchcock, che non vedevo da molto tempo. Sinceramente non sapevo cosa aspettarmi e nemmeno sapevo chi fosse l’anfitrione. Anche arrivare a Calitri è stato difficile, quasi stavo per cancellare la mia apparizione quando persi uno degli aerei che mi stavano portando lì – invece, per fortuna gli astri hanno provveduto a portarmi lì, dove tutto quello accaduto al festival mi ha incantato. Da quel momento è nato un patto d’amicizia, Vinicio mi chiama di suo fratello maggiore mentre io lo chiamo il mio Sacerdote del suono – e soprattutto sono tornato a Calitri per le registrazioni di La Cupa, il suo prossimo album. Calitri è un posto magico, quel villaggio in cima alle montagne che domina tutto – davvero roba da sogno! Di Vinicio, in ogni caso, mi ha frastornato il suo modo di suonare il pianoforte, ha una tecnica che non avevo mai sentito prima, e quando sono frastornato significa che sto udendo qualcosa di molto buono. Ti assicuro che con sua mamma la quale cucinava per noi tutti giorni, davvero non volevo più lasciare Calitri.
Ultima domanda: dì la verità, stavi scherzando quando mesi fa mi dicesti durante una conversazione che non sapevi chi fosse Terry Allen, il grande cantautore texano?
Ero serio, sì! Non so chi sia, ma forse lo so – forse non so solo che in verità so chi egli sia!