Per quanto mi riguardi, Paolo Bonfanti è uno di quelli del quale ho totale stima artistica e umana – è un una persona che non bara in niente di quello che fa, è il tipico esempio di self-made artist cui bisogna riservare indiscusso rispetto. Se un chitarrista così, ma anche l’autore Bonfanti non scherza, fosse nato in USA o in UK ci sarebbero certamente peana celebratori meritatissimi da parte dei media più grandi e autorevoli – da noi invece funziona il passaparola, che nel suo caso sembra peraltro aver contagiato molti, visti i concerti sempre affollati e la quantità di dischi che ho visto smazzare brevi manu a ogni sua esibizione. Sulla scia del nuovissimo e portentoso live Back Home Alive, prodotto per mano di Steve Berlin dei Los Lobos (già nei Blasters e produttore di grandi album firmati Leo Kottke, Chuck Prophet, Faith No More), Paolo ci ha concesso un’intervista che consigliamo di leggere attentamente – oltre che con il plettro, Bonfanti ci sa fare non poco anche con le parole, quelle di una persona non sovrastrutturata – al giorno d’oggi si tratta di una preziosa rarità.
Come mai ti è venuto in mente di contattare Steve Berlin per produrre il disco? E dopo questo live, magari fra voi potrebbe nascere anche una collaborazione di studio?
Tutto è iniziato con l’idea di far produrre il lavoro da un americano o comunque da uno di quelle parti. Io conosco da molto tempo il cantautore canadese David Essig, il quale negli anni Settanta aveva fondato un’etichetta discografica, la Woodshed, con Daniel Lanois, il famoso produttore di gente come U2, Willie Nelson, Bob Dylan e Peter Gabriel. Con notevole faccia tosta, chiesi a David di Daniel ma mi disse che non lo vedeva/sentiva da più di vent’anni per cui intercedere presso di lui sarebbe stato assai complicato. Nel frattempo il mio amico Aldo Pedron (giornalista musicale già co-fondatore de Il Mucchio Selvaggio e per lungo tempo direttore de L’Ultimo Buscadero da lui altrettanto co-fondato, NdI) a cui avevo parlato del progetto, e che è l’unico che io conosca che ti può mettere in contatto con, tanto per dirne uno, Van Morrison esattamente cinque minuti dopo che glielo hai chiesto, mi ha suggerito Steve Berlin. A me si è immediatamente accesa una lampadina perché mi è subito venuto in mente il suo superbo lavoro di produzione in Painted On dei Fabulous Thunderbirds – per esempio, già per My Baby Can, un brano di Exile On Backstreets, mi ero ispirato a quel tipo di suono – per cui abbiamo cominciato a prendere contatti, mandare links e informazioni, e lui ha accettato. Una persona professionale al massimo, di squisita gentilezza e disponibilità – ha fatto in modo che la parte tecnica del mix fosse seguita da David Simon-Baker, il fonico/ingegnere del suono dei Lobos da Tin Can Trust in poi, anche lui rivelatosi persona fantastica.
Sempre in tema Steve Berlin, che cosa ti ha sorpreso quando ti ha restituito i nastri di Back Home Alive? Cosa ti ha fatto sobbalzare dalla sedia e dire, immagino io, «Accidenti, che lavoro che ha fatto!»…
La cosa che mi ha sorpreso, in realtà, è stato il fatto che Steve sia riuscito a far risaltare al massimo il materiale che aveva ricevuto, nel senso che quello che si ascoltava eravamo noi ma con resa massima. Non ha fatto cambiamenti pazzeschi, anzi – semplicemente ha tratto il massimo da quello che avevamo suonato cosicché quello che si ascolta ha un gran suono ma siamo sempre noi. Niente trucchi né inganni!
Molto curiosa la cover di O.V. Wright, A Nickel And A Nail – come mai l’hai ripescata?
Se non ricordo male, è tutta “colpa” di una domenica pomeriggio su Radio 2 – qualcuno stava conducendo una trasmissione soul e R&B, quando a un certo punto, parlando di grandi misconosciuti del genere, costui mise su un paio di pezzi di O.V. – specie di A Nickel And A Nail ne rimasi letteralmente fulminato e decisi subito di inserirlo tra le cover da eseguire live!
Il disco si apre e si chiude rispettivamente con una cover dei Who e una dei Grateful Dead – come mai quelle scelte?
Quella dei Who è The Seeker, il Cercatore che non trova mai nulla però non gli importa e continua a cercare per il gusto della ricerca – mi ci ritrovo in pieno! E poi è un bel rockenrollone perfetto come inizio concerto! Franklin Tower dei Grateful Dead è lì come omaggio ai cinquant’anni di una band fantastica! Tra parentesi, per non farci mancare nulla, l’album è stato masterizzato da David Glasser agli studi Airshow in Colorado – Glasser, per dirti, ha curato ia masterizzazione delle ultime due raccolte uscite appunto per il cinquantenario dei Dead.
A proposito di Jerry Garcia e Grateful Dead, John Doe degli X recentemente ha detto una cosa che ho trovato molto interessante – cito testualmente, «Può sembrare strano ma non credo che Jerry Garcia suonasse molte note – semmai le sue note avevano tono e peso». Quale maestro indiscusso della chitarra qual sei, cosa ne pensi?
Inventività massima, stile perfettamente riconoscibile, ogni tanto qualche nota magari sporca o non del tutto giusta, perché nella musica come nella vita puoi anche sbagliare. Insomma, il massimo che si possa chiedere – per quello Jerry è e rimarrà nell’empireo della musica che amiamo. Diamo retta a John Doe, insomma, è uno che se ne intende!
Quando ti fanno passare molto frettolosamente per “chitarrista blues”, soffro io per te – non che tu non sia un gran chitarrista anche blues, ma ti ho visto sempre passare dal rock al folk al country con grande facilità e risultati entusiasmanti…
Diciamo che non ho particolari problemi di attacchi di panico o sfoghi cutanei quando mi definiscono un chitarrista blues (risate, NdI). Anche perché lo sono – o meglio, sono anche un chitarrista blues. Il Blues è una cosa da cui si parte, magari a volte ci si allontana ma a cui poi bisogna tornare prima o poi – perché è come il paese, il villaggio di cui parlava Cesare Pavese: tutti abbiamo bisogno di un paese a cui tornare, alla fine. Io mi ritengo un po’ un decatleta della chitarra – non detengo nessun record ma me la cavo bene un po’ in tutte le discipline.
Un’altra cosa per la quale soffro io per te – tu ti sei costruito un fortissimo culto di gente che ti segue fedelmente e che via via è andato aumentando come dimostrano i tuoi concerti sempre affollati, nonostante il disinteresse dei maggiori media nazionali, a mio avviso decisamente più proponessi a farsi convincere dagli uffici stampa dell’ultimo talent show o dai soliti “papaveri” di cui parlare in automatico piuttosto che da quello che accade veramente nel territorio. Come vivi la cosa?
Nessun problema! Se suoni un genere come quello che propongo io, già ti metti già in partenza fuori da certi schemi e “consorzi” – però bisogna dirlo: c’è un gruppo magari non vastissimo di giornalisti, appassionati o studiosi che non hanno paura di “sporcarsi le mani” e tengono viva l’attenzione. E il pubblico, anche se non è sicuramente quello di Vasco o dei Subsonica, alla fine c’è.
Sempre in tema di bizzarrie – se non ho capito male, dopo decenni di attività, quest’anno sarà la prima volta di una tua esibizione a uno dei festival più noti d’Italia, il Pistoia Blues – è una semplice coincidenza che avvenga solo ora o in tutti questi anni vi è stato “qualcosa che impediva” una tua partecipazione?
Eheh! Bella domanda! Pistoia Blues è un discorso lungo. Diciamo che, visto che ero l’unico storico bluesman italiano a non avervi ancora suonato, quest’anno “si sana un vulnus” come direbbe il mitico Minzolini!
Tu sei ligure e genovese doc, anche se ora vivi in Piemonte – che rapporto hai con la tradizione musicale molto forte della tua terra, che negli anni ha prodotto veri monumenti della musica italiana come Fabrizio De André, Gino Paoli, Bruno Lauzi, Ivano Fossati e Luigi Tenco?
In quello potrei essere definito atipico, perché ho sempre o quasi suonato musica americana e oltretutto sempre cantata in inglese. I grandi cantautori genovesi, quando addirittura in Liguria non vi sono nati, come Luigi Tenco, hanno sempre avuto a che fare con il Piemonte e sembrano sempre aver visto la città e la Liguria in generale in una prospettiva più “marina” – io ho visto e vedo Genova dalla parte del ferro e della ruggine, essendo sempre vissuto a Sampierdarena, la Manchester italiana! A Genova c’è tutt’ora una piccola ma agguerritissima enclave blues che si perpetua negli anni per non parlare di personaggi veramente fuori degli schemi quali Bob Quadrelli, Andrea Ceccon e Bobby Soul, che hanno mischiato Genova con il funk, il ragamuffin e il suono industrial-dance di Bristol. Solo che siamo genovesi e siamo sempre abbastanza restii a manifestare troppo le nostre qualità.
Mi piacerebbe che mi raccontassi cosa spinse il Bonfanti presumo nemmeno adolescente a tirar su la chitarra e pensare «Quest’arnese voglio che sia la mia vita»…
Pensa che ho iniziato a imbracciare la chitarra di mia madre, la quale aveva deciso intorno al 1974 di imparare a suonarla, non so davvero perché, abbandonandola dopo poche settimane – accorgendomi subito, dopo aver guardato il grande chitarrista classico Mario Gangi in TV, che qualcosa non quadrava. La corda più sottile sulla sua chitarra era in basso e sulla mia era in alto. Perché? Accidenti! Era perché sono mancino e imbraccio la chitarra al contrario! Per cui, via con pinze, tenaglie, lima a cercare di “girare” le corde. Ci devo aver messo un giorno intero! Però poi vuoi mettere la soddisfazione! Mi ricordo però un episodio chiave di qualche anno dopo, verso la fine anni Settanta, a un concerto in un teatro parrocchiale: io suonavo la batteria e il concerto era basato quasi completamente su cover dei Kiss – nel pomeriggio montiamo strumentazione e impianto audio/luci – lo chiamo così per carità cristiana! Perché in realtà durante le prove non funzionava nulla! Poi miracolosamente per il concerto tutto va a posto – in quel momento ho capito che la vita che volevo era quella! Per ora ci sono riuscito.
Prendiamo quest’intervista come uno sfizio – senza dover citare per forza monumenti viventi o non viventi della chitarra, mi citi tre chitarristi che ti piacciono…
Ok dai! Andiamo nell’esoterico così ci divertiamo un po’! Richard Thompson, Amos Garrett e Andy Fairweather-Low!
E sempre in tema di sfizi – tu sei oltre che un chitarrista pure un ottimo songwriter: anche qui, mi citi tre tuoi riferimenti certi…
Beh, qui potrei scrivere Bob Dylan, Bob Dylan e Bob Dylan! Ma voglio aggiungere anche CSN&Y – sono quattro ma in realtà come ben sai alla fin fine è una sorta di “quatrinità”! E non può mancare, di nuovo, Richard Thompson!
Sia nei tuoi dischi sia nei tuoi concerti ho notato una cosa davvero rara in Italia – hai una dizione molto naturale dell’inglese. Ci hai messo del tempo a svilupparla o è una cosa spontanea?
In Italia abbiamo strumentisti davvero capaci che quando suonano un certo tipo di rock hanno spesso lo stesso piglio dei colleghi d’Oltreoceano. Il problema sorge secondo me quando si canta in inglese. Troppo spesso ho ascoltato pronunce non troppo probabili. Allora ho veramente cercato di fare un lavoro approfondito sulla pronuncia. E’ vero che mi sarebbe piaciuto, col senno di poi, frequentare un liceo linguistico o una scuola per interpreti perché le lingue straniere mi hanno sempre affascinato, ma questo non basta. Bisogna lavorare sodo sulla dizione e la pronuncia. Spero che questo lavoro si possa sempre dedurre dal mio modo di cantare.
Il tuo profilo Facebook è uno dei più divertenti e interessanti che mi capiti di seguire. Fra le tante cose che ho notato, vi è certamente il tuo impegno politico-sociale – sono il primo a mettere la mano sul fuoco che i tuoi gesti in tal senso siano genuini e autentici. Ti chiedo una cosa che tu vorrei non prendessi sul personale, semplicemente te la chiedo per avere una tua opinione: quando l’impegno politico-sociale può scivolare nel “vetero”, specie se espresso da un artista? E altrettanto, qual è il confine che tu vedi che non faccia scadere, chiamiamolo così, nell’autocompiacimento da palco?
È un’ottima domanda! Secondo me l’impegno politico-sociale semplicemente non dev’essere un “impegno”! Nel senso che a me viene perfettamente naturale, un po’ per carattere e un po’ per tradizione di famiglia, interessarmi a quello che succede intorno a me e nel mondo. Un artista, come direbbe un grandissimo genovese, Edoardo Sanguineti, non può prescindere dall’impegno, con i suoi mezzi e nei suoi termini. Magari posso risultare un tantino “vetero” su certe cose, però rimango dell’opinione che, tanto per fare un esempio, se c’è crisi economica, la colpa di questa crisi non sia e non debba essere fatta pagare a chi di questa crisi è vittima. E ascoltare il politichetto di turno che dà la colpa a un operaio o a un insegnante o a un pensionato o a un esodato o a un immigrato/rifugiato mi dà un profondo senso di fastidio. Fatto salvo che in Italia ci sia bisogno di riforme in molti sensi, bisognerebbe appunto farle bene, farle davvero e non praticare tagli a caso, senza nemmeno capire bene che cosa si sta facendo, o meglio, capendolo perfettamente: salvare i privilegi bancari, industriali e politici! Quando faccio certi discorsi sul palco cerco comunque di farli in forma di battuta. Non raggiungo i livelli dei miei carissimi amici della Gang, i fratelli Severini, che comunque fanno una sorta di spettacolo-concerto-comizio che secondo me ha una logica serrata ed è coinvolgente al tempo stesso.
CICO CASARTELLI
fotografie di GUIDO HARARI