Salutato alternativamente come un capolavoro di pura action o un barbaro, tarantolato blockbuster per spettatori dalla soglia d’attenzione minima, il ritorno del regista australiano George Miller alla sua franchise più celebre, quella dell’ex-poliziotto della stradale Max Rockatansky, impazzito dal dolore dopo gli omicidi di moglie e figlia e perciò condannato a vagare senza meta in un futuro post-apocalittico, non è, come spesso capita, né l’una né l’altra cosa. Nelle motivazioni dei sostenitori non convincono le lodi riservate all’indubbia, sebbene non meccanica, ripetitività del film, come se nell’animo di qualsiasi cinespettatore in attesa di un po’ di fracasso covasse un insano rancore nei confronti di certe lentezze iraniane o stilizzazioni asiatiche (quando il ritmo, come ogni altro elemento di un film, è prima di tutto una scelta di stile, non per questo intrinsecamente valida o a priori esecrabile), mentre nelle critiche dei detrattori pare sospetto l’insistito accostamento tra la cadenza indiavolata delle immagini in movimento e i «livelli» di un qualsiasi videogioco, quasi i nostri (soprattutto nostri, ahimè) giornalisti non sapessero, come probabilmente non sanno, quale stadio di complessità narrativo/interattiva, spesso superiore a quella di tanti lungometraggi, abbiano raggiunto, e non da ieri, alcuni progetti videoludici targati Ubisoft o Bungie Studios.
Ma per chi ha occhi per vedere e un cuore cinefilo in grado di battere all’unisono col cineasta che l’ha diretto, Mad Max – Fury Road resta comunque non solo il film d’azione più riuscito dell’anno (di diverse spanne superiore a qualsiasi ammucchiata supereroistica o veicolare uscita nella stagione 2014/2015), bensì una gioia per gli occhi di chiunque, con la stessa nostalgia di Miller, rimpianga la purezza visiva del cinema muto. Difatti, dietro la visione di un medioevo futuribile violento e arretrato, dietro il ciclone punk di macchine come carri armati, motociclette d’assalto, trampolini per lanciarsi da un automezzo all’altro, pneumatici chiodati, protesi artificiali, schitarrate heavy-metal, frecce, bastoni, fucili, cisterne, stracci, creste, iniettori, lubrificanti, giubbotti di pelle corazzati e corpi devastati da escrescenze tumorali, si nasconde il sogno milleriano di ritrovare e, aggiornandolo, replicare, il grado zero linguistico delle comiche del muto: gli inseguimenti, gli scontri, le detonazioni, gli accecamenti e i colpi d’arma da fuoco esplosi lungo tutti e 120 i minuti della pellicola (con, a voler esagerare, 10’ totali di scene da fermi e dialoghi appena più elaborati di una qualsiasi battaglia verbale fatta di insulti) sono l’equivalente delle torte in faccia del cinema delle origini, l’afasia di Rockatansky un riflesso dello sbigottimento allucinato di Buster Keaton, la notte di cobalto della parte centrale un omaggio agli horror scandinavi d’inizio ‘900, il frastornante balzare da una macchina all’altra la trasposizione postatomica delle disavventure di Harold Lloyd con le lancette dell’orologio sulla 908 S di Broadway. Se già i precedenti capitoli della saga, Interceptor (Mad Max, 1979) e Interceptor – Il Guerriero Della Strada (Mad Max 2, 1981), erano stati, a differenza del terzo Mad Max Oltre La Sfera Del Tuono (Mad Max Beyond Thunderdome, 1985), “fantasia” spielberghiana in ogni caso ottima e caratterizzata da un tasso di violenza assai inferiore rispetto ai prototipi, tentativi riusciti di ricreare, tramite montaggio adrenalinico e sceneggiature ridotte all’osso, la forza esclusivamente visiva delle pellicole delle origini, così come i due Happy Feet (rispettivamente del 2006 e del 2011) avevano celebrato l’eleganza dinamica dei vecchi musical, il baraccone proto-western di Mad Max – Fury Road diventa un’astrazione inafferrabile sull’impatto frontale delle sagome di celluloide, un’odissea iperfemminista, sulla scia del William Wellman di Donne Verso L’Ignoto (Westward The Women, 1951), con amazzoni guerriere e vecchine armate fino ai denti, giovani madri destinate alla riproduzione e matrone gonfie di latte in combattimento con il potere totalizzante del capitale.
L’inglese Tom Hardy, arrivato a sostituire l’ormai vecchio Mel Gibson, recita per metà film con il volto costretto in una museruola di ferro, Charlize Theron vi appare monca e calva e non esiste personaggio che non sia affetto da una menomazione fisica, o da un’ossessione psichica. Girato tra gli studi di Sidney e il deserto della Namibia, Mad Max – Fury Road non sarà la rivoluzione cinematografica decantata da alcuni, ma del cinema e dei suoi primordi rivisita, stritola, accelera, fagocita e risputa tutti gli elementi distintivi con furia visiva incontenibile e divertimento garantito. È raro, in un prodotto mainstream realizzato ricorrendo a un uso massiccio di accorgimenti digitali, trovare così tanto affetto e così tanta nostalgia per un periodo in cui la settima arte era una faccenda di lavoro artigiano, bretelle e cappelli di paglia. Nel mondo di George Miller, però, anche questo è possibile: che il senso ultimo del cinema, dei suoi segni e della sua costituzione, venga cioè esaltato da un’eclatante sinfonia di ruggine, polvere, sabbia e bulloni.
GIANFRANCO CALLIERI