MAD è al tempo stesso un acronimo delle iniziali dei tre artisti presenti in mostra e una dichiarazione di intenti. MAD come folle, come figura di visione periferica della realtà, come vittima di un sistema di controllo e punizione, di foucaultiana memoria. Ma al tempo stesso anche il folle, come sovversione dello sguardo, slittamento del modo di osservare la realtà. Come in Adorno, in cui la visione dell’ebreo appeso a testa in giù ci esorta a guardare il mondo da una nuova prospettiva, il titolo della mostra ci suggerisce un ribaltamento della visione. Una distorsione del luogo comune del modo di dire “a ciascuno il suo”, specialmente attraverso la sua negazione, “a nessuno il suo”. Ecco dunque divenire centrale la reale base della mostra odierna: la negazione e l’esclusione.
Questa riflessione non prende la forma dell’astratta cicatrice presentata da Doris Salcedo alla Tate Modern di Londra pochi anni fa (e che partiva anch’essa dalle riflessioni di Adorno), ma che si presenta in questa mostra come presenza figurativa e materica nelle sculture ceramiche dei tre artisti. Se la Salcedo, infatti, parlava di fantasmi, di silenziose esclusioni nel tessuto della civile Europa odierna, al contrario, il lavoro di Daniel Wetzelberger si presenta come una distesa di ossa, di resti. Una concreta presenza fisica della morte e della fine. Una fine che ricorda le immagini che ci colpiscono quotidianamente: dalle odierne sepolture delle stragi del Mediterraneo (in cui i corpi dei migranti annegati in mare sono stati sepolti come un numero, senza nemmeno tentare un riconoscimento), alle stragi in Siria, fino alle guerre civili africane. E tuttavia non è certo Doris Salcedo l’unico esempio a cui ricondurre una contemporanea presa di coscienza verso la violenza del capitalismo occidentale, ben rappresentato anche dal lavoro di Abdon Zani. In quest’ultimo, infatti, la ripetizione seriale dell’oggetto (dal ricordo pop) associa la violenza del linguaggio pubblicitario (fondato proprio sulla serialità e la reiteratività) alla violenza del soggetto rappresentato. Una violenza che rimane meno esplicita, ma perturbante nel lavoro di Monika Grycko in cui una pletora di esseri post atomici (tra il cane e l’antropomorfo) fissano in maniera ossessiva la luce artificiale proveniente dal neon, inquietante ricordo di un nuovo Grande Fratello orwelliano.
Il futuro che la mostra ci prospetta è un domani dal sapore apocalittico, una visione perfettamente in linea con il tema al centro della recentissima apertura della Biennale di Venezia curata da Enwezor, All the World’s Futures. In questi futuri possibili, uno sembra stagliarsi con particolare forza, ricordando le recenti teorizzazioni di Lipovetsky sulla nostra società ipermoderna: un futuro fatto di iper-individualità e dall’imperativo del godimento. Entrambi gli scenari sembrano essere negati dagli artisti in mostra che all’iper-individualità dell’Express yourself oppongono un progetto di mostra in cui la firma stessa dell’artista si perde. Il modello proposto non è più quello tradizionale di una collettiva, che racchiude diversi artisti, ma del collettivo. Una prassi operativa che abbatte le barriere individuali per arrivare a proporre una visione coerente e omogenea. Ecco dunque che i lavori proposti non sono più riconducibili a un’individualità, ma a un lavoro collettivo (quello del trio artistico) che allarga la propria partecipazione alla collettività e alle considerazioni sulla nostra società.
11-28 giugno, ore 17.30 – 20 – Vernissage 11 giugno, ore 18.30 – Faenza (RA), Galleria Comunale d’Arte, Voltone della Molinella 4/6 – info: 0546 691301, artcollectivemad@gmail.com