In trent’anni esatti di Giant Sand ciò che colpisce più di tutto è come Howe Gelb, il lìdér maximo del Gigante di Sabbia, non abbia avuto mai alcun problema a imbarcare chiunque incrociasse la sua strada e quella del gruppo in perenne alterazione che lui rappresenta – già, perché solo a scorrere la quantità di elementi full time, part time, di passaggio etc che hanno toccato la band di Tucson in questi decenni il numero è di quelli molto, molto consistenti. Per il disco del trentennale, viste le premesse, il motto sembra il classico “abbondar finché efficere” – ossia in Heartbreak Pass la varietà degli ospiti è fatta di uno spettro che comprende diverse età, etnie e longitudini, nella fattispecie Grandaddy, Steve Shelley (Sonic Youth), Grant-Lee Phillips (Grant Lee Buffalo, Shiva Burlesque), gli olandesi Common Linnets, John Parish (PJ Harvey), il ritrovato Winston Watson (il batterista del primo album, Valley Of Rain, poi per molti anni al servizio di Bob Dylan) e addirittura più o meno nuove conoscenze italiane come Vinicio Capossela e i Sacri Cuori. Tanti nomi, quindi, cui però salta all’occhio, vista l’occasione, anche qualcuno che manca – come i Calexico, che dei Giant Sand sono uno spin-off, il vecchio amico Led Zeppelin John Paul Jones, KT Tunstall, Victoria Williams oppure Lisa Germano. Tant’è, magari sono assenze notate solo da antichi, meticolosi affezionati – oppure sono già in lista per il disco del quarantennale, chissà.
Il piatto è ricco ma il “coincidentalista” Howe Gelb, mago assoluto nel confondere e mischiare le carte, tira fuori del cilindro un disco quadrato e a tratti scarno che è il contrario di quello che dovrebbe essere un album celebrativo, forse. Già quando lo si mette sul piatto e parte Heaventually, nonostante Capossela che recita, Phillips che vocalizza e Parish che accarezza i tamburi, il tutto vive di un forte “understatement”, proposta che poi si ritrova a più riprese in Heartbreak Pass, vedi anche Every Now And Then, pezzo che più Lee Hazlewood di così si muore, oppure House In Order. Non che manchino, tuttavia, i passaggi dove Gelb eviti di schiacciare il gas, anzi – tipo in quello scelto per essere il brano guida, Transponder, o anche in Hurtin’ Habit che incede con una chitarra la quale nelle mani del lìdér è come una lama. E se nei dischi si deve sempre trovare il colpo del KO, non vi sono dubbi che qui sia rappresentato da Gypsy Candle, giocata con un pianoforte dal tocco Waits-iano e su un leggero arrangiamento orchestrale con Howe che porta il tutto a termine dividendo il compito di soffiare nel microfono con Lona Beth Kelley – in breve, qui rivive il mito di Hoagy Carmichael e, peraltro, nei Giant Sand più intimistici l’ombra del grande autore/jazzman non ha mai fatto fatica a far capolino.
Alla fine di ogni ascolto di Heartbreak Pass, è bene evidenziare, la sensazione è che quando si applaudono i Giant Sand non si applaude un gruppo alternativo spesso molto erroneamente confuso con l’ondata grunge – bensì un’entità che arriva da quell’America sempre alla ricerca della frontiera e che è frontiera essa stessa nel saper muoversi fra Tom Waits e Terry Allen, fra Hank Williams e il Ry Cooder che-voleva-superare-il-confine in Accross The Borderline, un soggetto che appunto quando gira i tacchi e se ne va potrebbe essere che non la vedrai mai più. Con Howe Gelb succede così ogni volta che pubblica una nuova opera – e adesso siamo all’incirca sulla cinquantina di lavori, fra quelli dei Giant Sand, album in solo e dischi sotto mentite spoglie – fate voi.
CICO CASARTELLI
GIANT SAND, Heartbreak Pass, New West Records, 2015