“Il teatro non ha bisogno della politica. È politico in sé”

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Simone-Toni-Giuseppe-Dozzo-675Pochi colori sul palco: un bianco e nero quasi ostinato, anzi, che riporta alle fotografie di una volta. Pneumatici ammassati, guanti da metalmeccanico, assi di legno opache di polvere. Un palcoscenico-officina, su cui il protagonista fa capolino e comincia a muoversi piano, un po’ barcollando, spostando e rispostando gli oggetti di scena, che così prendono vita. Intanto il racconto, scandito da diapositive in una lunga serie di date. Riflessioni, confidenze, illusioni e speranze affidate a un diario: le tappe di una storia, che prende voce e arriva a noi.

Il 16 gennaio 2015 siamo stati al Teatro di Budrio, in provincia di Bologna, per la prima di Operaio Off 24 n. 243688 – Il diario di Giuseppe Dozzo, operaio Fiat 1957/58, monologo diretto e interpretato da Simone Toni che conclude la rassegna Incauti off. Il giovane attore e regista di Forlimpopoli porta in scena la vicenda di Giuseppe Dozzo, operaio FIAT che alla fine degli anni Cinquanta venne licenziato perché poco gradito ai superiori. Iscritto alla Fiom, comunista ed ex partigiano, fu vittima a Mirafiori della tanto temuta “Officina 24”, quella in cui i lavoratori come lui venivano confinati a svolgere mansioni fantoccio, prima del licenziamento vero e proprio.

A metà tra il Chaplin dei Tempi moderni e I compagni raccontati da Monicelli, in rivolta a causa delle condizioni di lavoro disumane, Dozzo è un personaggio che impariamo a conoscere un po’ per volta: armeggia con i copertoni esausti, li impila: ora nicchia per rifugiarsi, ora podio scalcagnato. Recita le parole del diario come scrivendolo al momento, in sala, in un italiano che tradisce origini meridionali. «Un diario che Dozzo scrisse senza pretese, con la precisione del testimone e il gergo degli umili, diventando senza volerlo un esempio di dedizione e perseveranza», ci spiegherà Simone Toni al telefono qualche giorno dopo. «Mi interessava soprattutto però ritrarre un’idea di lavoro, e Dozzo è la persona giusta, perché mette e cerca ancora nel lavoro il senso dell’esistenza, opponendosi per istinto alle ingiustizie».

Ma come è nato il progetto Dozzo? «È uno spettacolo che parte da lontano» racconta Toni. «Anni fa l’amico Marco Benazzi mi fece conoscere Gli anni duri alla FIAT di Emilio Pugno e Sergio Garavini, un piccolo saggio del 1974 con all’interno la storia di questo giovane operaio e il suo diario. Mi suggerì di sceneggiarlo, ma ero perplesso: al contrario lo trovavo quasi irrappresentabile, troppo connotato storicamente e politicamente. E poi mi sembrava un testo tecnico: nessun riferimento alla vita privata dell’autore, solo il resoconto di un agguerrito rapporto di lavoro».

Il libro, insomma, è rimasto a lungo nel cassetto. Poi cos’è accaduto? «Un po’ per volta, il mio punto di vista è cambiato completamente. Avvicinandomi all’età di Dozzo all’epoca del diario, mi sono reso conto che non solo poteva nascerne uno spettacolo, ma doveva. Il lavoro, per Dozzo, è fonte di diritti e luogo di esercizio della dignità: un’interpretazione del tutto attuale e forse, perché no, universale. Raccontare questa storia, superando ideologie e colori politici, mi permetteva di esprimere uno stato d’animo che in questo momento mi appartiene».

Le lotte sindacali, i soprusi, l’Italia operaia. Teatro civile, insomma. O no? «È un punto che mi preme chiarire. Non volevo uno spettacolo di sinistra, almeno non in senso stretto: penso a Paolini, Celestini, artisti che stimo ma che conducono una ricerca diversa. Io ho cercato di togliere dalla vicenda di Dozzo il contingente, le ideologie, e fare teatro contemporaneo: le mie scelte registiche vanno lette sotto questa luce. Detto ciò, il teatro ha sempre un colore, è sempre politico. Lo è per definizione».

Di nuovo una questione cromatica. Rosso vivo, per tornare allo spettacolo. Abituato a forza al grigio, il pubblico di Dozzo viene scosso all’improvviso una macchia rossa che compare vivida dal nulla. È la Nuova 500, appena messa in produzione a Mirafiori. Dozzo ne vernicia in miniatura un modellino, che però così fiammante, sullo sfondo desolato, ingigantisce e ci ruba gli occhi.

«Credo molto in questo spettacolo», ammette Toni, «e le risposte che finora ho ricevuto dal pubblico sono incoraggianti. Spero di riuscire a portarlo un po’ in tutti i teatri d’Italia; e che la gente si affezioni a Dozzo, ognuno a modo proprio».

MICHELE BARTOLETTI STELLA