Preambolo disfattista.
Se è vero che la modalità con cui una comunità umana recepisce un oggetto culturale dice qualche cosa di fondamentale e chiarissimo non sull’oggetto culturale in sé ma sulla comunità umana, siamo rovinati.
Fine del preambolo disfattista.
Frankenstein Junior. Una macchina del divertimento che fa dell’esplicita e totale adesione all’omonimo cult movie la propria cifra e la propria forza. Della celeberrima pellicola di Mel Brooks questo allestimento prende i modi e le forme, a partire dal titolo che a inizio spettacolo appare in un grande cartello al centro del palco (con buona pace di Bertolt Brecht) per arrivare alle arcinote battute («Lupo ululà! Castello ululì!», «Potrebbe essere peggio… potrebbe piovere») e ai riccioli del protagonista. Gli elementi da grande show nazionalpopolare ci sono tutti: lampi ed effetti di luce, personaggi-macchietta caratterizzati più dall’aspetto fisico e dal costume che dalla recitazione e dalla psicologia, una messe di vivaci balletti e canzoncine orecchiabili, scenografie imponenti che cambiano di continuo. In platea diverse centinaia di persone, il teatro strapieno di abbonati della stagione di prosa: ovazioni a scena aperta a ripetizione, ogni cambio è segnato da un applauso a chiamata, dame della buona borghesia e signori in abito grigio entusiasti e grati per le due ore e mezza di un musical davvero riposante, etimologicamente divertente. Un’immagine su tutte: la matura signora seduta di fianco a me (con permanente, filo di perle e pelliccia d’ordinanza) che al riferimento neanche troppo velato alla misura del pene del Mostro si sganascia paonazza sgomitando il vicino.
Il regno profondo. Claudia Castellucci dice con molte sfumature e canta con voce di diamante, interagendo sapientemente con musiche inaudite, un sermone drammatico da lei scritto. È un testo filosofico, finanche devozionale, densissimo e colto, composto con l’obiettivo dichiarato di «comprendere l’origine dei gesti e porre a se stessi domande semplici ed essenziali». Seduta a un tavolo, la fondatrice della Socìetas Raffaello Sanzio giustappone alla parola una precisissima e minimale non danza, frutto di molti anni di rigorosa indagine sugli intricati rapporti fra movimento e filosofia. In platea: quindici persone, per la maggior parte spaesate, incerte, attonite.
Ora. Probabilmente ha ragione Umberto Eco: per capire cosa accade quando parliamo di cani, gatti, mele o sedie, abbiamo bisogno di categorie, che gli schemi cognitivi ci aiutano a creare. Detto altrimenti: per attribuire un significato a qualcosa bisogna riuscire a inquadrarlo, a metterlo in una cornice, a dargli un’etichetta. E gli effetti speciali di Frankenstein Junior, i suoi rassicuranti cliché, sono più assimilabili alla nostra idea di “spettacolo” del criptico sermone di Claudia Castellucci.
Detto questo, se è vero che la modalità con cui una comunità umana recepisce un oggetto culturale dice qualche cosa di fondamentale e chiarissimo non sull’oggetto culturale in sé ma sulla comunità umana, siamo rovinati.
Fine.
MICHELE PASCARELLA