Tre parole per fotografare Le bambine di Terezin.
Resistenza culturale. Solo. Bambini.
Perché?
Resistenza culturale: a Terezin si faceva musica, teatro, poesia, arte, si faceva cultura per non lasciarsi imbarbarire, per restare esseri umani. Noi oggi tagliamo su istruzione e cultura perchè con la cultura non si mangia; a Terezin si moriva letteralmente di fame eppure si insegnava, si creava, si cantava.
Solo: è il primo lavoro in cui sono sola in scena. Lo spettacolo è nato e cresciuto alla fabercasetta, lo facciamo in due, con i miei colleghi che si turnano nella parte tecnica; ma è un lavoro profondamente mio e sento il fatto di essere sola sul palco come una tappa fondamentale del mio percorso.
Bambini: le loro parole, i disegni, i colori, la poesia e la speranza delle loro testimonianze sono quello che mi ha convinto a raccontare proprio questa storia, ad affrontare la shoah come tema di uno spettacolo.
«Dopo Auschwitz non si può più fare poesia», ha detto il filosofo Theodor Adorno. Quale audacia richiede un tema come questo?
Mi viene in mente quel momento di Se questo è un uomo in cui Levi cerca nella memoria i versi di Dante per raccontarli e tradurli, hai presente? Direi che ci sono casi in cui proprio la poesia può salvarci.
Poi per me è centrale questo: che cosa può dire a noi oggi questa storia, quali insegnamenti, a che cosa può servire quel passato. Lo dice bene Maria Teresa Milano che tanto ha studiato Terezin: «Spostare l’attenzione e ragionare non tanto sui ricordi, ma piuttosto su quali sono gli insegnamenti vitali racchiusi nell’universo shoah».
La tua narrazione è accompagnata da molti disegni. Perché? Forse la parola non è sufficiente a significare tanto orrore, e dunque occorrono altri medium?
È così. I disegni dei bambini colorano la scena, descrivono con leggerezza, raccontano visioni, speranze, ricordi. Io mi tengo fuori dall’Orrore con la O maiuscola, ma certo è sullo sfondo e sì: i disegni portano sulla scena la vita, la felicità di esistere che nel campo c’era ed era attivamente ricercata dagli adulti che si occupavano dei piccoli.
Hai scritto «Nello spettacolo racconto di questo campo, abitato da persone speciali che la sera dopo aver lavorato 10 ore per i nazisti fanno musica, fanno teatro, leggono poesie, cantano». Arte come medicamento, dunque? O come affermazione identitaria?
Sì, le arti erano «isole di libertà spirituale del ghetto»: tutti quegli artisti, quei talenti rinchiusi lì insieme hanno dato vita a una sorta di paradiso culturale magistralmente sfruttato poi dai nazisti per fare di Terezin il “ghetto modello” agli occhi del mondo.
Cosa ha perso lo spettacolo, nel corso delle tante repliche fatte?
Parole: all’inizio volevo raccontare tutto, ogni dettaglio mi sembrava irrinunciabile. La storia ha dei tratti surreali rispetto agli altri campi, mano mano che li scoprivo mi ripetevo: «Questo devo dirlo, e anche questo». Ma era un troppo pieno. Ora sono nella fase in cui tolgo parole: le mie, non quelle dei testimoni.
Quali le reazioni più sorprendenti a Le bambine di Terezin?
Non mi aspettavo di vedere tanta commozione negli adolescenti. Io la ricordo quella sensazione di piangere di nascosto, tipo al cinema, a quell’età. Gli occhi lucidi a fine spettacolo mi fanno credere di aver raggiunto e toccato qualcosa.
MICHELE PASCARELLA
sabato 17 gennaio, ore 21 – Faber Teater, Le bambine di Terezin – Faenza (RA), Casa del Teatro, Via Oberdan 7/A – Info: 0546.622999, teatroduemondi.it, faberteater.com