La cura dello sguardo

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Guido-Guidi, foto di Manuela De Leonardis

Ronta si trova nella periferia di Cesena. Quella periferia agricola e artigiana, paesaggio antropologico, tanto presente nelle fotografie di Guido Guidi. «Per me la via Emilia è la mia casa», ci dirà poi il maestro. La sua abitazione/studio è massiccia: una vecchia casa colonica con i muri ben piantati a terra e tanta vegetazione attorno. Fatichiamo a trovare la porta di entrata. Per fortuna due cani gemelli ci guidano scodinzolando al campanello.

Guido Guidi ci accoglie con il sorriso e con lo sguardo. In silenzio ci esploriamo. Lo sguardo è una parola chiave del suo lavoro fotografico. Come del resto lo sono le parole assenza e vuoto. Per questo le sue fotografie riescono a catturare sempre la presenza di un’assenza.

«L’idea fondante del lavoro che ho fatto – ci spiega – è che ho fotografato delle cose che guardano. Quando faccio una fotografia sto guardando un palo che indica o una casa che guarda. Questa necessità mi deriva dal fatto che per me guardare è prendersi cura attraverso lo sguardo. Ricordo, un po’ di tempo fa, a Venezia, per strada incontrai una mamma che sgridava il suo bambino: ‘cammina – gli diceva – non guardarti attorno’. L’insistere dello sguardo è desiderio di conoscenza. Paolo Costantini, Italo Zannier, Silvia Fusco e Sandro Mescolo nel 1989, in occasione dei 150 anni della nascita della fotografia, organizzarono una mostra a Palazzo Fortuny a Venezia e la intitolarono L’insistenza dello sguardo, titolo ‘rubato’ a Roland Barthes da una lettera aperta ad Antonioni».

Così scopriamo un Guido Guidi coltissimo. In bagno trovo due saggi: Il soggetto nel quadro dello storico dell’arte francese Daniel Arasse e un tomo, di oltre 400 pagine, di Olivier Lugon intitolato Lo stile documentario, edito da Electa. Alcuni passi sono segnati con la carta igienica. Rido e glielo dico. Lui ribatte che la carta igienica come segnalibro è perfetta. Quando apri il libro non vola via, così non si perde il segno. Faccio una prova ed è vero.

© Guido Guidi, 2005
© Guido Guidi

 

Prima di Veramente – ora al Mar di Ravenna dove si possono ammirare alcune serie realizzate durante i suoi viaggi all’Est e alcuni lavori (meravigliosi) in bianco e nero dei primi anni degli anni ’70 e degli ’80 – avevo visto Cinque paesaggi a Roma. Una mostra per la quale i critici hanno speso più volte i termini di paesaggio e catalogazione. Quindi la mia conversazione parte da qui. Voglio sapere se la fotografia per Guido Guidi è paesaggio.

«Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento è successo un pasticcio. Dopo Cezanne, dopo la nascita del modernismo, il paesaggio in arte è diventato un tabù. In fotografia no. Negli anni ’80 ero solito andare in collina, oltre Piavola, nell’alto Appenino cesenate per fotografare. Stavo fotografando la montagna di fronte, quando passa il mio amico pittore Osvaldo Pieraccini che frena l’auto e dal finestrino mi urla: ‘Beati voi fotografi che potete’. In pittura il tabù per il paesaggio, il disinteresse dei salotti buoni, non vorrei avesse portato al disastro ambientale di oggi. Ad ogni modo il paesaggio è sempre stato connaturato alla fotografia. Negli anni ’20 e ’30 in Germania con Sander è nata la fotografia del volto, come concrezione della storia della vita di un uomo. Il volto come mappa. August Sander si unì al Gruppo degli Artisti Progressivi di Colonia. Loro volevano fare un catalogo della società contemporanea attraverso i ritratti di persone al lavoro. Fece oltre 500 fotografie di lavoratori».

Quindi la fotografia è anche catalogazione? «Non sono mai stato un vero catalogatore, perché sono pigro, perché mi stufo dell’ordine e mi ritrovo in un disordine complesso, dove mi perdo necessariamente. Una serie di fotografie dovrebbe avere sempre un’idea alla base. Ma se decido, per esempio, di fotografare tutti i pali della luce di Gambettola succede che mi perdo. E succede che magari diventa più interessante fotografare l’ombra del palo che sbatte sulla finestra di una casa del palo stesso. E quindi è finita, succede che non posso più catalogare. Per essere un buon catalogatore bisogna essere macchina. È l’aspirazione di ogni buon fotografo, mia per primo, quella di annullare la presenza dell’artista per diventare palo della luce o casa».

© Guido Guidi
© Guido Guidi

 

Quali sono i suoi maestri? «Mi piacciono i fotografi antichi e sono un filoamericano. Il mio maestro è Walker Evans. Evans non è il più grande fotografo del ’900, ma il più grande artista del ’900. Anticipatore della Pop Art. Io come anche altri fotografi mi sento suo figlio. Ringrazio il mio insegnante Italo Zannier che me lo ha fatto conoscere e che con i suoi insegnamenti mi ha cambiato la vita. Nel 1975 Walker Evans muore e il Moma di New York gli dedica una seconda grande retrospettiva. Io ordinai il catalogo per posta. Mi arrivò dopo tre mesi. Gran parte del lavoro di quegli anni è stato influenzato da questo catalogo. Non mi vergogno di dirlo. L’artista non inventa dal nulla, ma aggiunge solo. Spesso non sono consapevole di quello che ho visto, ma me lo porto dentro. Dico sempre: chi non ha maestri è uno che avuto cattivi maestri».

Quando ha scattato la sua prima fotografia? «Nel 1957. Fotografai i miei compagni di classe del liceo. La macchina fotografica era una camera arcaica, a soffietto, con negativo 6×6 e cavalletto. Mi fu regalata da un parente che era in debito con mio nonno. Furono tutti molto stupiti quando espressi il desiderio di avere un macchina fotografica. Avevo comprato in edicola tre libretti. Uno di questi era Imparare la fotografia. Gli altri due erano Imparare a nuotare e Imparare l’arte dello judo. Sperimentai lo judo insieme ai miei amici di San Mauro in Valle. Allora lo judo era pressoché sconosciuto. Ma la disciplina mi introdusse alla filosofia Zen. Nella mia fotografia lo Zen e l’Oriente sono molto importanti, mi hanno insegnato il lavoro di sottrazione. Poi da adulto ho scoperto che in quegli stessi anni l’Action Painting era influenzata dalle filosofie orientali e che insomma la mia scoperta era nell’aria».

© Guido Guidi
© Guido Guidi

 

Cosa pensa della fotografia digitale? «Se rinascessi la userei sicuramente. Ma io ormai sono abituato a un’altra tecnica. Per me ormai fotografare è una sorta di rituale religioso. Con il digitale è tutto troppo facile. Per me è fondamentale il processo, anzi il processo è quasi tutto. All’inizio mi piaceva il bianco e nero e mi piaceva svilupparlo. Ora non lo faccio più. Per fortuna ho un laboratorio a pochi passi da casa che lavora benissimo per me. Ma ho nostalgia della camera oscura, di quando con la radio accesa in sottofondo stavo a guardare l’affiorare dell’immagine illuminata dalla luce rossa».

Legge romanzi? La fotografia è anche racconto? «Non leggo romanzi. Per lo più leggo saggi di arte e critica. Prima delle scuole medie l’unico libro che avevamo in casa era I Promessi Sposi. Lo lessi talmente tante volte che lo avevo imparato a memoria. Poi mi sono tuffato nella lettura degli scrittori russi, i racconti di Čechov, Dostoevskij, Gogol. Poi ancora Proust, Gadda. Un tempo la fotografia per avere dignità doveva imitare il racconto. Così sono nate le serie. Anch’io le ho fatte come scherzo giocando sulle microvariazioni tra uno scatto e l’altro. Trovo stancante tutta questa letteratura che invade anche le altre arti. Sembra che la fotografia per affrancarsi debba ancora avere bisogno della retorica. In Italia è considerata ancora un’arte di serie B, allo stesso modo di quando ho cominciato. Da giovane se mi chiedevano cosa volevo fare da grande avrei risposto l’architetto o il pittore. Poi mi sono iscritto ad architettura e ho capito che la vera architettura è quella popolare. Il godimento che ho quando incontro una abbazia in campagna è maggior di quando entro in Vaticano. Così sono diventato fotografo. La fotografia ha una vena popolare. Franco Fortini, il poeta, diceva che se si scrive in italiano si fa fatica a parlare del pane. Se invece scrivo in dialetto il pane è dentro. La stessa cosa vale per la fotografia che è un medium popolare».

Ce ne andiamo più ricchi e leggeri di quando siamo entrati. È un peccato tornare nel traffico. Ho imparato tanto, ma quello che più mi è piaciuto è che a volte l’ombra è più interessante del soggetto.

Fino all’11 gennaio 2015 – Guido Guidi: Veramente – Ravenna, MAR, via di Roma 13 – Info: 0544 212092, mar.ra.it