Telegrammi dalla Mostra del Cinema di Venezia (parte 2)

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Les Nuits d'Été, di Mario Fanfani

Les Nuits d'Été, di Mario Fanfani
Les Nuits d’Été, di Mario Fanfani

Queer Lion

Les Nuits d’Été, di Mario Fanfani (**1/2): nella Francia del 1959, sullo sfondo della guerra di Algeria, vive una coppia tranquilla, Michel notaio stimato e ambizioso, Helene madre premurosa dedita alle opere di beneficienza. Però Michel ha un segreto: ogni fine settimana va nella casa di caccia per travestirsi da donna e diventa Mylene. L’amore che li unisce li porterà a superare due radicate ipocrisie: quella relativa al patriottismo imperante rispetto ad una guerra crudele ed ingiusta, e quella relativa all’identità sessuale. Vincitore del Queer Lion, il premio assegnato al miglior film sulle tematiche lgbt.

Vite di attori

Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance), di Alejandro González Iñárritu (***1/2): Riggan Thomson, attore in declino dopo i fasti del passato di re del blockbuster con il suo supereroe alato Birdman, decide di portare in scena a Broadway una sua produzione che lo dissangua finanziariamente, ma che soprattutto lo costringe a confrontarsi con le sue capacità artistiche, alle quali la critica newyorkese non risparmierà nulla. Distrutto dalle ossessioni del passato e del presente Riggan dovrà combattere contro tutte le fragilità e le insidie dello star system che non concede sconti a chi ha vissuto di facile ed effimera fama. Inarritu inserisce nel suo film molti, troppi temi, dal cinismo della critica al dominio dell’immagine nell’epoca dei social, dalla rappresentazione di manie e fisime tipiche del mondo della celluloide alla necessità di mostrare insieme durezza e fragilità dei rapporti. Il tutto rappresentato con lunghi e virtuosistici piani sequenza, che la tecnica moderna del digitale rende ancor più perfetti. Esageratamente Inarritu.

She’s Funny That Way, di Peter Bogdanovich (***1/2): “lei” è Izzy (Imogen Poots), una giovane star hollywoodiana che racconta l’inizio della sua avventurosa carriera ad una giornalista. Nella sua ascesa dal nulla (inizia come escort) fino all’olimpo del cinema è facile vedere una metafora del grande cinema classico americano, come grande fucina dei sogni collettivi. Inutile cercare di raccontare la storia, basta dire che il ritorno al cinema, dopo 13 anni, di P.B. (grazie al sostegno produttivo di W. Anderson e N. Baumbach – a proposito: non perdetevi il suo Frances Ha, da poco uscito nelle sale) è un dichiarato e riuscito omaggio alle sophisticated comedies di una volta (romantiche e svitate), quelle di Lubitsch e Hawks, che oggi solo W. Allen riesce a girare con pari grazia. Grande cast e risate a non finire.

The Humbling, di Barry Levinson (**1/2): la grande star di questa edizione della Mostra è stata sicuramente Al Pacino, presente con due film (oltre a questo, Manglehorn, in concorso). Qui interpreta un vecchio attore sul viale del tramonto. Ha dedicato al teatro la propria vita e all’improvviso si rende conto di aver perso l’ispirazione. Cade in depressione, fino a tentare il suicidio. A fargli tornare il desiderio di vivere è l’incontro con una donna molto più giovane, lesbica. Un film giocato al confine tra dramma e commedia, tratto da un romando di Philip Roth.

 

Theeb, di Naji Abu Nowar
Theeb, di Naji Abu Nowar

 

Viaggiatori nei deserti dell’Africa

Theeb, di Naji Abu Nowar (***1/2): 1916, un deserto ai margini dell’impero ottomano, sulla via della disgregazione. Qui vive il piccolo Theeb. Avendo da poco perso il padre, è il fratello Hussein che cerca di insegnarli lo stile di vita beduino. La loro esistenza è interrotta dall’arrivo di un ufficiale dell’esercito britannico. Seguendo le leggi dell’ospitalità dei beduini, Hussein accetta di guidarlo lungo una pericolosa pista nel deserto. Theeb non vuole separarsi dal fratello e, di nascosto, li segue. Inizia un viaggio avventuroso e pieno di insidie, in una regione che è territorio di caccia di mercenari ottomani, rivoluzionari arabi ed emarginati predatori beduini. Le distesi di dune, imponenti canyon, la ferrovia in costruzione, gli assalti dei briganti: l’immaginario è quello dei western. Theeb si troverà a convivere con un nemico mortale, di cui tuttavia ha bisogno per sopravvivere. Il viaggio per lui sarà una drammatica e tragica uscita dall’innocenza dell’infanzia.

Loin des hommes, di David Oelhoffen (**1/2): un viaggio periglioso nell’altopiano desertico dell’Atlante, nell’Algeria del 1954, sconvolta dalla guerriglia degli indipendentisti e dalla dura reazione dell’esercito francese. Un maestro francese, ex comandante dell’esercito, deve accompagnare in una guarnigione un contadino che ha ucciso un compaesano. Dovrà compiere scelte difficili, far prevalere le convinzioni dettate dalla propria coscienza di uomo libero o quelle derivanti dalle appartenenze imposte dalla guerra? Da un racconto di Camus. Le musiche originali sono di Nick Cave e Warren Ellis. 

Storie di tossici

Heaven Knows What, di Josh e  Ben Safdie (****): con taglio documentaristico ed attori presi in gran parte dalla strada, la vita di un gruppo di tossici che vagabondano sulle strade di Manhattan. Al centro del film la bellissima Arielle Holmes (il film si ispira ad un suo racconto autobiografico) e il suo amore struggente ed impossibile per Ilya. Più vero di un documentario.

La vita oscena, di Renato de Maria (*): la discesa agli inferi delle dipendenze (dalla droga e dal sesso a pagamento), fino alle soglie dell’autodistruzione, di un giovane rimasto improvvisamente orfano, raccontato con linguaggio che si vorrebbe visionario e psichedelico (con l’obiettivo dichiarato di uscire dal minimalismo tipico di tanto nostro cinema). Supponente ed irritante: il più brutto film di Venezia 71. 

Dalla pagina scritta alla pellicola

Hungry Hearts, di Saverio Costanzo (***1/2): il dramma psicologico di una madre, Mina, che vive con ossessione le contaminazione del mondo esterno e che decide di difendere il proprio figlio ad ogni costo, anche rischiando la sua stessa salute e la possibilità di una crescita naturale. Un padre, Jude, che soprattutto ama la propria moglie, perché il loro è stato un colpo di fulmine travolgente che il regista ci mostra nella scena iniziale esilarante quanto inaspettata rispetto al clima che si vivrà una volta che i due diventeranno genitori. Il disorientamento di vivere una maternità porta Mina ad affidarsi anche ad una veggente che le rivelerà il carattere speciale del proprio figlio, il bambino indaco (titolo del romanzo da cui è tratto il film) dotato di poteri soprannaturali. Il contrasto che vivranno i due genitori dediti entrambi a proteggere il figlio l’uno dall’altro li travolgerà e li condurrà verso un finale senza scampo, in cui amore ed odio si alterneranno senza soluzione di continuità in una rappresentazione al limite tra la commedia tragica e il noir di Polanskiana memoria.

The Sound and the Fury, di James Franco (**1/2): rivivono sullo schermo i flussi di coscienza dei tre fratelli Compson, a comporre il destino di decadenza di un’aristocratica famiglia del Sud americano negli anni della depressione. Sostanzialmente fedele al grande capolavoro di Faulkner, ma senza riuscire a renderne la grande forza tragica. Un racconto trasparente e quasi lineare, banale al confronto di una prosa che è un ribollire magmatico abbacinante. In Sala Grande, prima della proiezione, la troupe di J.Franco gira una scena del suo prossimo film, nella quale il protagonista, con testa rasata e tatuata, riceve un premio alla Mostra del cinema del 1976. Saremo stati ripresi anche noi?

The Postman’s White Nights, di Andrei Konchalovsky
The Postman’s White Nights, di Andrei Konchalovsky

 

La commedia della vita

The Postman’s White Nights, di Andrei Konchalovsky (***1/2): un piccolo villaggio in una zona remota e isolata del nord della Russia, sul lago Kenozero. L’unico punto di contatto con il mondo esterno, oltre alla TV, è il postino che, con la sua barca a motore, porta ogni giorno i beni di prima necessità. Attraverso le sue consegne impariamo a conoscere gli abitanti di questo piccolo mondo antico, dove tutti si conoscono e si vive con l’essenziale. Quasi tutti gli attori sono non professionisti.

La rançon de la gloire, di Xavier Beauvois (**1/2): tratto da una storia vera, il furto della bara di Chaplin, morto in Svizzera nel Natale del 1977, ad opera di due immigrati, il film raccoglie i sentimenti scaturiti dalla vicenda e li sviluppa in una storia dai contorni chapliniani con tanto di citazioni da film del grande Charlot e una colonna sonora che ne riprende i temi originali. Eddy appena uscito di prigione e Osman, amico algerino con la moglie malata in ospedale e una figlia adolescente, fanno fatica a sbarcare il lunario vivendo in roulotte nella periferia di una cittadina svizzera alla fine degli anni ’70. Dopo aver visto in tv i funerali di Chaplin, progettano il furto della salma. L’improvvisazione del piano e la loro ingenuità, degni eredi dei soliti ignoti di monicelliana memoria, li condurrà a disavventure che solo la pietà e la comprensione della famiglia del comico americano, verso un gesto che sa di disperazione, renderanno meno dure. Il carattere chapliniano dei protagonisti e le atmosfere da realtà surreale narrate da silenzi e musiche ispirate, contrastano con una sceneggiatura fin troppo accomodante che propone soluzioni talvolta discutibili, rendendo meno interessante il progetto del film e la sua realizzazione.

3 coeurs, di Benoît Jacquot (**1/2): Marc ispettore delle imposte a Parigi, in una trasferta di lavoro nella provincia francese incontra Sylvie, che ha un negozio di antiquariato con la sorella maggiore Sophie. Un incontro causale di due solitudini, un possibile amore. Dopo aver passato la notte assieme si danno appuntamento a Parigi, ma per uno scherzo dello stesso destino che li ha fatti incontrare, non si ritrovano. Marc escogiterà uno stratagemma al lavoro per tornare nella cittadina di provincia e ricercare Sylvie, ma la sorte gli farà incontrare Sophie. Una commedia piacevole, per quanto la storia sia ben poco verosimile.

Retour à Ithaque, di Laurent Cantet (***): l’Itaca del titolo è L’Avana, un luogo mitologico per ciò che storicamente ha rappresentato per tanti decenni per la sinistra, l’idea di una società giusta. Lì, su una terrazza che affaccia sul Malecon, si ritrovano, dopo tanti anni, un gruppo di amici, oramai nella fase matura della propria vita. Ai ricordi del passato, rievocati con nostalgia, si affianca un confronto sempre più serrato su alcuni nodi cruciali delle loro vite, dal quale emergeranno anche segreti mai detti, in una sorta di resa dei conti tra le illusioni coltivate nella gioventù e le disillusioni con le quali occorre convivere. Alla presentazione il regista ha raccontato di aver fatto girare agli attori le diverse scene senza interruzioni, come in teatro, per poi rimontare le varie parti, restituendo così al meglio l’unità di tempo del racconto. Il grande freddo cubano. 

Storie di ragazzi

Sivas, di Kaan Müjdeci (***): il piccolo Sivas vorrebbe tanto la parte del principe nella recita scolastica, anche per conquistare una bella compagna, che fa la principessa. Ma il ruolo spetta (di diritto) al figlio del capo villaggio. Per guadagnare qualche punto nella dura competizione che è la vita, in mondo aspro e duro, dove le relazioni sembrano fondarsi solo sulla forza (siamo nel cuore dell’Anatolia), sfrutta l’amicizia con un maestoso cane da combattimento, abbandonato dai proprietari in fin di vita dopo una cruenta battaglia persa. Eccolo riacquistare le attenzioni e il rispetto degli amici. Ma troverà una cosa più importante, la scoperta di nuove emozioni, quelle legate all’affetto e all’amicizia, come mostra la rinuncia che compie alla fine del film. Opera aspra, non facile, non furba, accolta dai fischi degli animalisti.

Le Dernier Coup de Marteau, di Alix Delaporte (***): Victor ha 14 anni e vive con la sua giovane mamma, malata di cancro, in una roulotte vicino al mare, nella regione francese della Camargue. Il padre non l’ha mai conosciuto. È il talento della squadra di calcio, osservato anche dai tecnici della nazionale giovanile. Non ha la spensieratezza dei suoi coetanei, troppo pesanti sono le responsabilità di cui deve farsi carico e le incertezze del futuro. Un giorno però al teatro dell’opera arriva il padre, un famoso direttore di orchestra. Vuole incontrarlo, ma viene respinto. Sembra vivere in un altro mondo, fatto di note, prove d’orchestra e ricerca di armonie impossibili. Victor non si arrende e grazie alla sua ostinazione, tra dubbi e incertezze, riusciranno ad avvicinarsi, con una comunicazione spesso interrotta da silenzi e riempita dalla musica, in grado di esprimere i sentimenti dei protagonisti più di tante parole. Un racconto semplice, ma ben sceneggiato e diretto. Da sottolineare la prova di Romain Paul che interpreta il giovane protagonista, vincitore del Premio Mastroianni come miglior attore emergente.

 

*da evitare; **guardabile; ***da vedere; ****imperdibile; *****capolavoro

PS la prima parte dei Telegrammi veneziani, dovesse interessare, si trova qui.

 

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Per lavoro: ufficio stampa e comunicazione di progetti artistici e culturali. Per passione: critico e studioso di teatro, danza e arti visive. Curioso di altre arti. Camminatore. Collaboro con Gagarin dal 2012: interviste, presentazioni, recensioni, in alcuni periodi ho anche distribuito la rivista cartacea in giro per la Romagna. Quello che mi piace di Gagarin: la varietà, la libertà.