Pillole dal Festival del Cinema di Roma

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last summer
Last Summer di Leonardo Guerra Sragnoli

 

Il mio film d’apertura della nona edizione del Festival del Cinema di Roma è una scelta un po’ forzata. E’ l’unico disponibile al mio arrivo all’Auditorium.

The Narrow Frame of Midnight è il primo lungometraggio della regista britannica Tala Hadid figlia di esuli iracheno-marocchini.

Voglio cogliere gli umori e capire quali sono i film da non perdere, mi fermo pochi giorni per cui non posso tornare a casa con dei rimpianti, entrata in sala attacco subito bottone con il mio compagno di veduta. Visibilmente molto giovane, appena inizia a parlare dichiara tutta la sua romanità. Dei quattro film che ha già visto, tre lo hanno fatto piangere è quindi preoccupato del proseguo del festival o della sua carriera (non ricordo bene): è uno studente di cinema.

Buio in sala, inizia il film. La storia intreccia il destino di tre personaggi: uno scrittore marocchino alla ricerca del fratello catturato e torturato dalla polizia, la sua fidanzata e una piccola orfana venduta ad un criminale che la vuole portare in Europa.

Alla ricerca delle proprie radici o di un futuro migliore i protagonisti si spostano tra il Marocco, Istanbul e Baghdad. Il commento del mio nuovo amico “Aò, e mò proprio nun ce stò a capì più niente…” arrivato dopo circa 30’ di proiezione, è forse troppo secco, ma nel significato condivisibile.

Il giovane futuro critico cinematografico mi regala un pacchetto di fazzolettini e mi spedisce a vedere Still Alice scritto e diretto da Richard Glatzer e Wash Westmoreland.

Julianne Moore è una brillante linguista con una cattedra alla Columbia University quando le viene diagnosticata una forma molto precoce di Alzheimer.

E’ il lento declino di una donna brillante raccontato tramite le piccole tattiche che si inventa per combatterlo. La malattia mette in crisi il suo matrimonio e tutto ciò che ha costruito; accettare di perdere un po’ della sua vita ogni giorno sarà la sua sfida più grande.

I fazzolettini li ho usati tutti.

Trash diretto da Stephen Daldry, lo vedo in sala alla proiezione con il cast.

Tre bambini che vivono e lavorano in una discarica di Rio trovano un portafoglio, scoprire il segreto nascosto nel suo contenuto li trascinerà in mezzo ad inseguimenti e sparatorie. Non arrendersi per trovare la verità anche a costo di sopportare brutali torture è comunque “la cosa giusta da fare”.

L’happy ending scatena gli applausi e la standing ovation per i giovani attori. Anche loro si alzano in piedi e si mettono a saltellare sulle sedie per farsi un bel po’ di selfie. Come il film, anche la proiezione è una bella favola. Vincerà il premio del pubblico.

L’unica opera italiana che vedo è I milionari di Alessandro Piva.

Napoli: il bello detto Alendelonn’ e i suoi due fratelli sono i protagonisti della storia di una famiglia criminale tra gli anni ‘70 e ‘80. Piuttosto prevedibile e non molto ben recitato mi lascia indifferente. Dopo Gomorra-il film e Gomorra-la serie tv è molto difficile fare pellicole del genere, il confronto in questo caso è crudele ma inevitabile.

Come in ogni festival per fortuna, ad un certo punto, arriva il bello. E a Roma il bello si chiama Richard, sì quel Richard.

Mi precipito al red carpet per sentire i commenti delle fan e unirmi a qualche grido isterico, ma sono subito messa in riga dalla gomitata di una signora che mi chiede: “Aòòò! Anvedì com’è bbianco! Che me dai na mano? Nun lo riesco a fotografà!”

Il film dell’ormai canuto bellone è Time out of mind di Oren Moverman. “Lui” è un barbone che dorme nella vasca di una casa abbandonata finché non lo cacciano e si trova senzatetto a vagare per le strade di New York.

Ha una cicatrice in testa ma non scopriremo mai come se l’è procurata. Cerca di riavvicinarsi alla figlia ma viene respinto, sembra volersi riscattare in qualche modo ma alla fine non ci riesce. E’ incastrato in una sorta di limbo, lui, e purtroppo anche il film, forse perché si fa fatica a credergli: trasandato e con un berretto a fagiolo in testa, anche se lo ha preso alla Caritas come indossa un cappotto ¾ lui, non la fa di sicuro nessun barbone.

A due giorni dalla fine del mio festival arriva la crisi: pochissime ore a disposizione, tanti film tra cui scegliere e ancora quel terrore iniziale di perdere il capolavoro assoluto.

Delego la responsabilità a chi lo scorso anno ha visto 13 festival cinematografici in giro per il mondo, e seguo Maria Giovanna, amica decennale e critica cinematografica greco-italiana.

Insieme vediamo Last Summer, opera prima di Leonardo Guerra Seragnoli, scritto insieme a Banana Yoshimoto.

Dopo aver perso la custodia del figlio di sei anni, una madre giapponese ha quattro giorni di tempo per dirgli addio, potrà rivederlo solo quando sarà maggiorenne.

La vicenda si svolge sullo yatch della ricca famiglia del padre, attraccato in mezzo al mare; insieme ai due solo l’equipaggio.

Non succede quasi nulla, si mangia, si dorme e si fa il bagno come in ogni vacanza. E’ nei piccoli gesti e negli sguardi che i due ricostruiscono i sentimenti profondi del loro nuovo rapporto.

Grazie Maria Giovanna, ho trovato il mio capolavoro.

Chiudo il festival del cinema con la proiezione delle 9 del mattino di Gone Girl di David Fincher.

La scomparsa della moglie il giorno del loro quinto anniversario di matrimonio proietta il marito al centro di un circo mediatico talmente crudele che presto lo trasforma nel colpevole di un omicidio, nonostante non sia ancora stato trovato il cadavere.

Sono due ore di colpi di scena alle volte tanto assurdi da diventare grotteschi, però ci credi fino in fondo e riesci anche a farti qualche sana risata.

Mi prende talmente tanto che quando esco mi sento come la protagonista: cammino sinuosa con le spalle dritte, ho i capelli biondi, uno sguardo dolce, un po’ da pesce palla, una determinazione assassina e sono pronta a tutto. Anche a lasciare il Festival.

Sono contenta dei film, dei nuovi amici e di quelli vecchi.

Purtroppo niente feste: non perché non ce ne siano state, ma rispetto ad altri Festival qui per imbucarsi bisogna giocare in serie A; io mi alleno ancora coi pulcini.

VALENTINA SANGIORGI