Le nostre stellette dei film visti a Venezia

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Leone d’oro

A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence, di Roy Andersson (***): 39 frammenti, di pochi minuti ciascuno. Con grande rigore formale (son tutti piani sequenza con camera fissa), è rappresentata, con ironia al contempo perfida e surreale, l’esistenza solitaria e disperata di un’umanità senza speranze. Per dare un’idea: il piccione filosofo del titolo che, seduto su un ramo, riflette sull’esistenza, è il protagonista della prima scena: è in una teca trasparente, imbalsamato, nella stanza di un museo di storia naturale, ammirato da un gruppo di visitatori. Le scene successive raccontano tre modi diversi di fare i conti con la morte. Grottesche strisce di comics.

Gagarin d’oro

Red Amnesia, di Xiaoshuai Wang (****): all’inizio sembra un film sul disagio esistenziale di una vecchia signora della nuova ricca borghesia cinese, sulla difficoltà di convivere con la nuova generazione dei figli, in un paese dominato da cambiamenti travolgenti. Poi insistenti telefonate mute e l’incontro con un misterioso ragazzo aprono la via ad un altro film, un thriller sulla rimozione dei peccati (collettivi) giovanili, all’epoca delle delazioni e delle purghe della Rivoluzione culturale. Resa dei conti con il passato, senza vincitori.

Cinema della memoria

The Look of Silence, di Joshua Oppenheimer (****): alla ricerca di verità e giustizia, il texano J.O. dopo The act of killing torna in Indonesia per parlare dei massacri istigati dalla dittatura militare di Suharto che, nel 1965, portarono alla morte oltre un milione di “comunisti”. La sua telecamera segue Adi, il fratello di una delle vittime, mentre si confronta con gli assassini e i loro familiari. Da loro vorrebbe ottenere una assunzione di responsabilità (una richiesta di perdono), quale base per una convivenza non condizionata dalla paura e dal risentimento. “Una poesia su un silenzio carico di terrore”.

Tsili, di Amos Gitai (***1/2):, la tragedia della Shoah non è stata forse mai raccontata in modo così asciutto e antiretorico. Gli orrori della guerra restano sullo sfondo (i rombi delle bombe). Una ragazza ebrea sfuggita alle rappresaglie si rifugia nel bosco, dove incontra un altro scampato alle stragi. Adamo ed Eva? Al contrario però della Genesi: qui si scappa dai disastri della Storia (della civilizzazione), e un provvisorio paradiso è nella Natura selvaggia. La migrazione nella terra promessa, nel finale, sembra un nuovo tentativo di rinascita nel mondo. Da un romanzo di A. Appelfield, è un film recitato in yiddish.

Fires on the plain, di Shinya Tsukamoto (***): la disfatta dell’esercito giapponese nelle Filippine, durante la seconda Guerra mondiale, vista dal più visionario e crudo dei registi giapponesi. Fiumi di sangue e corpi squartati. Il protagonista (interpretato dal regista) è una sorta di Forrest Gump, che riesce miracolosamente a scampare dall’inferno della guerra, dove ogni barlume di umanità è scomparsa (i sopravvissuti si mangiano a vicenda). Il film più disturbante di Venezia 71.

The cut, di Fatih Akin (**): il genocidio degli armeni raccontato da un regista di origine turca; e che regista (La sposa turca, Soul Kitchen). Le premesse erano interessanti, il risultato mediocre: un film piatto, dall’impianto televisivo (i vecchi polpettoni televisivi, non certo le nuove serie degli ultimi anni), senza anima e senza personalità, nel quale gli attori, nel profondo dell’Anatolia, parlano un ottimo inglese. Si seguono le avventure di un fabbro, che scampa al massacro e, a guerra finita, cerca le figlie superstiti in ogni capo del mondo. Le condizioni storiche del genocidio non sono in alcun modo raccontate. Così la Storia, a noi pare, finisce per essere banalizzata.

Vite di scrittori

Il giovane favoloso, di Mario Martone(****): raccontare Leopardi è un’avventura da far tremare i polsi a chiunque. Non a Mario Martone che dopo l’esperienza risorgimentale di Noi credevamo, si cimenta ancora in un’opera titanica: rappresentare il percorso artistico e la storia travagliata del poeta, troppo lontano dalle idee e dalla cultura del tempo, senza cadere in cliché e stereotipi. Elio Germano lo interpreta in un’evoluzione assolutamente naturale delle sue inefficienze fisiche, dando voce ai suoi versi quasi fossero le hit di una popstar dei giorni nostri. L’adolescenza e prima giovinezza a Recanati sotto il controllo ossessivo del padre e il sentimento bigotto della madre che vedeva nella sua malattia ai nervi quasi un segno divino. Gli anni trascorsi a Firenze, a contatto con il mondo intellettuale che tanto ammirava ma dal quale finisce per essere incompreso e a desiderare un amore irraggiungibile. Gli ultimi sette anni trascorsi a Napoli, descritti con tonalità caravaggesche, nella quali il buio dell’aggravarsi della malattia e degli incontri con lazzaroni e francischielli viene squarciato dalla luce dell’amicizia fraterna con Ranieri, che allievano il dolore e la pena della sua tormentata vita. E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Pasolini, di Abel Ferrara (**): gli ultimi suoi giorni di vita: il mondo dei suoi affetti più teneri, quasi tutti femminili, nella casa all’EUR, i suoi impegni e i suoi contatti come influente uomo di cultura (l’ultima intervista con Furio Colombo sul suo ultimo film, Salò, che uscirà postumo), le opere alle quali stava lavorando, che prendono vita sullo schermo (Petrolio, il grande romanzo sul potere, e Porno-Teo-Kolossal, il film che avrebbe voluto affidare a De Filippo) e, infine, la sua morte violenta sulla spiaggia di Ostia (secondo una ricostruzione molto più plausibile delle tante dietrologiche che sono fiorite negli anni). Un film non riuscito, fortemente penalizzato dal ricorso ad un inverosimile inglese (nell’ultima parte Defoe recita in italiano e spegne la grande vitalità di Pasolini). Forse la versione che verrà distribuita (con il doppiaggio affidato a Gifuni), migliorerà le cose.

Storie di mafia

Belluscone. Una storia siciliana, di Franco Maresco (****): tanti film nel film: uno sul tentativo fallito di realizzare un’inchiesta di stampo giornalistico sull’origine siciliana delle fortune e dei capitali di B.; un altro sulla fuga del regista (non è venuto neanche a Venezia), con Tatti Sanguinetti sulle sue tracce, a cercare di riannodare i fili ingarbugliati della matassa (il tanto materiale girato in anni di lavoro); infine un’analisi antropologica sulle affinità elettive di una certa Sicilia, forse arcaica, con la retorica del cavaliere rampante, osservata, quasi con affetto, e non giudicata. A guidare Maresco in questo viaggio è l’impresario di cantanti neomelodici Ciccio Mira, che rimpiange la mafia di una volta. Correte in sala a vederlo, è il film più sorprendente visto a Venezia. Riso amaro.

Anime Nere, di Francesco Munzi (****): Africo, alle pendici dell’Aspromonte. Una bravata di un giovane impulsivo riaccende una antica faida tra due famiglie della ‘ndrangheta. Il film si concentra sulle dinamiche interne ad una di queste famiglie ed in particolare sui tre fratelli, che impersonano tre diversi modi di essere mafiosi, tra aderenza alle tradizioni e apertura alla modernità. L’imprenditore edile milanese che ricicla i soldi sporchi, il trafficante internazionale di droga, il maggiore, che resta nel paese, ancorato ad una visione e a riti arcaici. Si ritrovano nel borgo natio per affrontare la sfida, ma la famiglia si dilania. Non è il solito film sulla mafia, la forza travolgente e tragica della storia e l’accuratezza nella ricostruzione di psicologie, ambienti e rituali, lo rendono un film bello ed emozionante.

La trattativa, di Sabina Guzzanti (***): il film si muove su più piani, raccontando con immagini di repertorio e con set di finzione (alcuni in chiave grottesca), le vicende della trattativa, quella che alcuni uomini dello Stato tentarono di organizzare con frange dell’organizzazione mafiosa al fine di disinnescare la spirale di terrore avviata da Totò Riina con le bombe del 1992 e del 1993 e con l’uccisione di Falcone e Borsellino. I protagonisti sono i collaboratori di giustizia che hanno disvelato quest’intreccio tra parti dello Stato, carabinieri, infiltrati, massoni, politici di ogni partito e mafiosi. Questi fatti, che abbiamo imparato a conoscere da inchieste e giornali, rappresentati tutti insieme organicamente destano una forte impressione anche nello spettatore meno partigiano. Amare verità

Freaks

Im keller (In the Basement), di Ulrich Seidl (***1/2): per cogliere la vera natura della piccola borghesia della ridente e civile Austria non basta fermarsi alle apparenze esteriori (le linde ed ordinate casette), ma occorre scendere nelle cantine, dove al riparo da sguardi indiscreti, c’è chi coltiva nostalgie hitleriane, chi si abbandona a pratiche sadomaso estreme (grandi applausi in sala grande per lo schiavo, personaggio vero, non attore, che si fa appendere per le palle dalla mogliettina dominatrice), e così via. Continua a graffiare il regista di Canicola e della trilogia Paradies (mai uscita nelle nostre sale!). La banalità del male.

Goodnight mommy, V. Franz e S. Fiala (***): sempre dall’Austria arriva questo disturbante horror psicologico (non a caso la regista è la moglie di Seidl, che ne firma la produzione). In una bella casa isolata nella valle una giovane madre è convalescente dopo un incidente che ne ha modificato i tratti del volto. I due piccoli figli, gemelli, non riescono a riconoscere in lei la madre. Inizia una spietata caccia all’intrusa. Finale, senza lieto fine, con sorpresa.

Un mondo ingiusto

Court di Chaitanya Tamhane(***1/2): Court è il tribunale, il luogo in cui si svolge gran parte di questo film indiano di produzione indipendente, che esce decisamente dai canoni bolliwoodiani. La storia descrive la via crucis di Narayan, un anziano cantante di strada, che in una sua esibizione in un quartiere della casta Dalit, gli intoccabili destinati a svolgere i lavori più umili, racconta in una canzone il paradosso per il quale è preferibile annegare nella fogna piuttosto che vivere così. Il caso vuole che alcuni giorni dopo un operaio muore proprio annegato nella fogna che stava pulendo, a causa delle precarie condizioni di sicurezza. Ciò basta per incolpare Narayan di incitamento al suicidio. Prendendo spunto da questa vicenda il film riesce a mostrare le grandi contraddizioni dell’India: le storture del sistema giudiziario, con le rigide procedure dell’epoca vittoriana, la corruzione dell’apparato poliziesco, che non esita a fabbricare testimoni falsi per sostenere le accuse, i forti pregiudizi razziali e sociali. Il film ha ottenuto due premi prestigiosi: miglior film della sezioni Orizzonti e migliore opera prima. Una promettente scoperta.

One on one, di Kim Ki-duk (**1/2): una ragazza viene uccisa su commissione di uomini potenti. Un gruppo di vendicatori, di giustizieri sociali, si mette sulle tracce degli esecutori e dei mandanti, innestando una spirale senza fine di violenza. Presentando il film, il regista ha dichiarato che il suo è un grido di rabbia contro la corruzione imperante nella Corea, dove l’avidità e la sete di potere sembra poter giustificare ogni condotta. Una rabbia che però va a scapito dell’ispirazione poetica, lontana da quella dei suoi film migliori. Demoni coreani.

99 homes, di Ramin Bahrani (**1/2): una delle tante storie nate dallo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti: la disperazione di chi perde la propria casa e si trova sulla strada per non aver potuto pagare le rate del mutuo; il cinismo e la spregiudicatezza di chi, banchieri ed agenti immobiliari, speculando sulle disgrazie altrui, si arricchisce, anche ricorrendo ad espedienti illegali (la giustizia sembra tutelare solo i più forti). La vittima trova la via del proprio riscatto seguendo le orme e l’esempio dell’agente immobiliare che lo ha sfrattato. Interessante ma penalizzato da un ritmo troppo incalzante e da un finale forzatamente edificante.

Nella seconda parte Iñárritu, Costanzo, Bogdanovich, Konchalovsky, Franco e tanti altri.

*da evitare; **guardabile; ***da vedere; ****imperdibile; *****capolavoro