Sabato 19 luglio 2014
MÅRTEN SPÅNGBERG, The Nature, <Hangar Bornaccino>, ore 18.30 (2h 30’)
Fiori finti dentro scatola di Jack Daniel’s, tre ananas, un paio di scarpe nere col tacco alto, palloni gonfiabili a spicchi bianchi e rossi, scatole di cartone della pizza e bicchieri di vetro appesi al soffitto, bottiglie di colore a tempera, stoffe metallizzate oro e argento, ventagli, pacchi maxi di patatine.
Cinque danzatori abitano questo luogo.
Visi dipinti, parrucche, cappelli. Molti colori.
Mårten Spångberg seduto a lato guarda e fa piccoli cenni. Un Kantor degli anni Zero.
Copio qui la presentazione di The Nature dal libretto, perché è bellissima: «La Natura è lì, che noi la guardiamo o no. Si prende cura di noi senza fare differenze, senza fare distinzioni. La Natura, come un intervento divino, non ha bisogno di spiegazioni, né di dimostrazioni. Così Spångberg intende la danza, come qualcosa che esiste a prescindere dalla performance. Mettetevi comodi, sentitevi liberi, fatevi in sonnellino o sussurrate qualcosa a chi vi siede accanto, va tutto bene. Godetevi la danza senza pressione, esisterebbe comunque, a prescindere da voi».
I danzatori lentamente si spogliano. Spuntano altri colori e altri disegni.
Danze leggiadre in mezzo alle coperte e ai sacchetti di plastica.
Canzoni voce e chitarra, tra l’una e l’altra un silenzio che non è silenzio, ma uccellini che cantano.
Tre ragazze si avvicinano al pannello bianco con scritte nere sulla destra. Riempiono gli spazi con tempere e pennelli, mentre i danzatori fanno equilibri lenti in sincrono.
A terra una parrucca fucsia, prima era sulla testa di qualcuno.
Il movimento dei danzatori non pare particolarmente pulito, lavorato. Fanno quel che devono, senza esplicito virtuosismo.
Mårten Spångberg seduto a lato manda sms.
Le canzoni indirizzano decisamente verso il relax.
Si aggiungono altre coloratrici di spazi, alcune hanno al collo il cartellino rosso e blu del Festival. Intanto, in centro, danze lentissime in cerchio. Molti contatti fra loro. Rotolamenti a terra in sincrono.
Mårten Spångberg fa foto e le posta online. La mia vicina gli scrive su fb, lui le risponde subito. Lei ride. I danzatori rotolano.
Wonderwall degli Oasis ripetuta cinque volte. Coreografia ondeggiante e urletti.
Cartelli “pizza party” e “dusk”.
Molti cambi di costume, lentissimi e a vista.
Sfinire la rappresentazione, smontarla da dentro. Svuotare per sovrabbondanza, curiosa capriola.
Postcoreutico si potrà dire?
MK, Robinson, <Hangar Bornaccino>, ore 21.30 (55’)
Rumore sordo, lungo.
Una specie di materassino argentato gonfiato a elio ondeggia a mezz’aria.
Indigeno giallo e nero, in mano una lancia (asta) sottilissima.
Stare, aspettare, raccogliere sassi da terra.
Entra Robinson, maglietta grigia con una R sulla schiena.
«One, two, three, four, five, six, seven».
L’indigeno esce.
Figure sole.
Riflessi del materassino sul fondale.
«One, two, three, four, five, six, seven».
Scatti, agguati, rotazioni, onde.
Penombra che ostacola la visione.
Torna l’indigeno, appoggia l’asta sulla spalla di Robinson, che si sposta. L’asta rimane lì, immobile. Dopo un po’ Robinson torna al posto di partenza, scalcia ma sta lì.
Entra Venerdì, una V sul retro del costume.
Stralunato duetto di prese e trattenute, Robinson e Venerdì.
Entrano altri tre danzatori. Luci molto bianche. Rotazioni in sincrono, braccia aperte, ginocchia piegate, baricentro basso.
Musica incalzante e sintetica.
Robinson sudato, “organico”, contrasta questa rarefazione.
Rotazioni, musica incalzante, coreografie reiterate.
Spostamenti continui da destra a sinistra, ciascuno nel proprio binario: pochi incontri.
Un controluce bianchissimo.
Venerdì a quattro zampe. Preda di Robinson?
L’indigeno entra con un quadrato argentato gonfiato a elio, come un palloncino. Lo scoppia ed esce.
Serie di assoli, poi un duetto, poi un altro.
L’indigeno entra e guarda.
Dal cielo piove una gran quantità di fiori, veri e colorati. Il profumo arriva forte in prima fila. Molti restano appesi, sospesi.
Non c’è più spazio per la danza.
Buio.
MICHELE PASCARELLA