Vincent Van Gogh fissò il suo ritorno a Parigi per la fine di febbraio del 1886. Non ce la faceva più a stare ad Anversa. I 50 fiorini che suo fratello Theo gli aveva spedito erano finiti, si era ammalato di nuovo e trovava le lezioni della Ecolè locale ormai superate.
Theo aveva un posto fisso, di prestigio. Goupil, noto mercante d’arte, gli aveva affidato la direzione della sua nuova galleria di Montmartre. La galleria consisteva di due piani: nel primo si trovava l’arte più abbordabile, nel secondo Theo impose che venissero messe le opere dei suoi amici impressionisti e dei loro predecessori, che tanto ammirava. Aveva scritto a Vincent di correre lì, di studiare e perfezionare la sua tecnica guardando i Corot, i Sisley, i Degas, i Daumier, l’amato Millet. Theo gli disse di guardare bene le opere del suo amico Monet, così luminose. Vide quell’enorme quadro fatto da un giovane di nome Seurat, La grande Jatte, che gli fece perdere il sonno.
Per rivedersi, i due fratelli si diedero appuntamento a mezzogiorno, all’entrata del Louvre. Da quel giorno non ci fu bisogno di scriversi lettere piene di speranza per il futuro, lettere in cui Vincent scriveva minuziosamente ogni sua scelta visiva (“uso non uno, ma 27 neri”) e di delusione: Theo non riusciva infatti a vendere i quadri del fratello. Andarono a vivere insieme nel piccolo, ma decoroso appartamento che Theo aveva affittato a Rue Lavalle. Parigi era un fremito, il centro dove tutto accade: Vincent ci si buttò a capofitto, desideroso di far esplodere il suo studio frenetico. Si fece un nuovo amico, il ventenne Toulouse Lautrec, che fu il Cicerone in quelle notti di bagordi.
Vincent, però, continuava ad avere qualcosa di strano, un carattere duro da olandese, capace di grandi slanci ma privo di qualunque ironia, specie sulla sua arte. Solo Theo lo capiva.
Divisero tutto, persino una donna misteriosa che comparve in una delle lettere più strane mai scritte. Un’amante di Theo, momentaneamente assente per lavoro da Parigi, si era insediata nel loro nuovo e più grande appartamento di Rue Lepic, minacciando il suicidio. Scrisse al fratello: “ci sono dei giorni strani, qualche volta abbiamo paura di lei.”
Vincent, sofferente di solitudine, prese a cuore quella donna visibilmente malata, arrivando addirittura a proporre a Theo una “soluzione amichevole”: l’avrebbe sposata lui. All’improvviso la donna misteriosa scomparve.
Dopo Parigi, la storia è nota. Vincent andò ad Arles, in Provenza, colpito dalla luce del posto, desideroso di creare con Gauguin una comunità artistica sostenuta dalle vendite nella galleria di Theo. La malattia di Vincent (schizofrenia?) peggiorò all’improvviso, l’episodio del lobo dell’orecchio tagliato e portato ad una povera prostituta come macabro dono fu la fine (“sogno di accettare con fermezza il mio mestiere di pazzo”). Theo era preso dalla malattia del figlio, dall’impossibilità di vendere i quadri del fratello. Sì, non riuscì a venderne neanche uno.
Il 29 luglio 1890 Vincent si tolse la vita.
Theo seguì l’adorato fratello maggiore sei mesi dopo.
P.S. Lettere a Theo, parte dell’epistolario tra i due fratelli, è stato ripubblicato da Guanda – Le Fenici nel 2013.
Questo articolo è dedicato a mia sorella Barbara