“Ogni tanto, nel bel mezzo del lavoro per The executioner song, mi arrivava una nota da Morton Janklow, il mio agente letterario. Mi passava una lettera indirizzata a lui e da passare a me (…). Questa lettera (…) offriva istruzioni”.
Norman Mailer ricevette questa e altre lettere – dirette e senza fronzoli – dal carcere di Marion, Utah. L’autore era il detenuto Jack Henry Abbott, condannato in prima istanza per rapina a mano armata e per avere poi accoltellato, uccidendolo, un altro detenuto. Abbott aveva letto sulla rivista People che Mailer era a buon punto nella stesura di un libro su Gary Gilmore. Il caso Gilmore – autore di due omicidi e per questo condannato a morte – stava facendo parlare; d’altronde era la prima volta che un condannato alla pena capitale insistesse affinchè venisse eseguita al più presto la condanna (Al plotone armato Gilmore dirà il tristemente noto “Let’s do it”!).
Abbott pensò che poteva dare una mano, raccontare dall’interno il sistema carcerario. D’altronde era anche lui nella stessa merda di Gilmore!. Nel giro di due settimane si ritrovò ad avere una corrispondenza con Norman Mailer, futuro premio Pulitzer proprio con The executioner song. “Hai un dono”: questo gli disse il grande scrittore quando lo andò a trovare in carcere.
In quell’incontro Mailer lasciò ad Abbott uno sguardo compassionevole e la promessa che quelle lettere sarebbero diventate un libro. Era nata un’amicizia.
Erroll Mcdonald fu l’agente letterario incaricato dalla casa editrice Random House. Mcdonald andò a trovare Abbott a Marion più volte e, da subito, trovò alcuni suoi atteggiamenti ripugnanti. Per Mcdonald, giovane intellettuale afroamericano, furono subito evidenti le tracce di un atteggiamento razzista e misogino .
La pubblicazione del libro era sempre più vicina. Titolo scelto In the belly of the beast, nel ventre della bestia. Ancora più importante per il detenuto, era tempo per l’udienza di libertà sulla parola. L’amico Norman voleva esserci, dire la sua.
Di fronte al giudice incaricato, Mailer e i suoi amici spesero parole di elogio sulle potenzialità di Jack. Per loro era ormai Jack. Persino Mcdonald si lasciò alla fine incantare.
Nell’estate del 1981 Jack Abbott usci di prigione insieme al suo primo libro. Intoduzione a firma di Norman Mailer.
Accompagnato alla Lower East Side di Manhattan, Abbott vide in sequenza dalla finestra della sua nuova sistemazione un accoltellamento, un ricovero per malati di mente da considerarsi troppo vicino, l’esplosione di un’auto, una dozzina di sguardi torvi. Doveva dotarsi di un coltello al più presto, era chiaro.
Le cene a casa Mailer videro Jack conversare con rampolli dei Kennedy, scrittori dissidenti in fuga dalla Polonia, giornalisti sportivi e stars del cinema. Tutti loro, a cose fatte, dissero che avevano notato in lui qualcosa di sinistro, scervellandosi con banalità del tipo: “non sbatteva mai le palpebre”. In the belly of the beast – brutale spaccato dall’interno del sistema carcerario della “grande democrazia americana” – nel frattempo, riceveva ottime recensioni e le vendite non erano male.
Alla signora Mailer numero sei – Barbara Church, l’ultima – Jack piacque subito. Lo lasciava persino giocare con il piccolo John Buffalo (sic) nell’attico/superattico di Brooklyn Heights. Jack, perso tra le banalità del mondo “fuori”, la chiamava per qualunque questione, dalla scelta di un pantalone all’uso della lavanderia a gettone. Era proprio il suo essere così naive ad affascinarli?
Il coltello nella tasca di Abbott c’era ancora. Rimaneva lì anche in quelle serate dove Mailer non poteva essere con lui. Alla fine lo usò, sei settimane esatte dopo il suo rilascio.
Un rifiuto per una toilette ad uso esclusivo del personale divenne un alterco, poi una promessa, alla fine un morto in terra con il cuore lacerato. La vittima si chiamava Richard Adan, aspirante attore, nipote del proprietario del ristorante che quella sera era lì solo per dare una mano. Per Abbott, invece, era tutta una questione di supremazia e sopravvivenza.
Jack vide nell’invito a uscire all’esterno una chiara provocazione. Testimoni dichiarorono invece che il ragazzo stava solo cercando di calmarlo, in tutti i modi. Troppo buio, fuori: “potevo vedere solo che era all’incirca a dieci passi da me”.
Con Abbott in fuga, l’opinione pubblica spostò l’attenzione su Mailer. D’altronde adorava esserci, anche se scomodamente posizionato.
Continuò, quindi, a stare accanto a Jack anche dopo la sua cattura, in autunno inoltrato. La sola presenza di Mailer traformò il processo in una questione di principi che andavano al di là dell’effettiva pericolosità dell’imputato e che, di nuovo, trascinò in aula una fauna intellettuale diversificata e incuriosita, molto simile a quella per la quale Tom Wolfe aveva coniato il termine radical chic. Christopher Walken e Susan Sarandon furono visti in aula studiare per un’eventuale trasposizione cinematografica del caso.
Abbott trovò quasi che Mailer gli stesse rubando l’attenzione, come se fosse stato lui a dare la pugnalata mortale.
Sin dai suoi esordi da enfant terrible della sua generazione, Mailer amò la provocazione, creare su di sé un’aura maudit da bevitore incallito e boxeur amatoriale, sempre pronto allo scontro fisico ed intellettuale, alla controversia politica e allo scandalo. Tra new journalism, saggi e la ricerca del Big One – il grande romanzo americano – il nipote del rabbino di long Branch mirava alla grandezza.
Ex studente perbene di Harvard, Mailer si lasciava affascinare di continuo da figure come quella di Abbott.
In particolare L’hipster – archetipo a metà strada tra un’esistenzialista satriano e un fuorilegge pericolosamente patologico – era stato al centro di White negro (1957). Nel saggio Mailer delineava con tono profetico quello che di lì a poco sarebbe avvenuto nel movimentismo anti-establishment degli anni sessanta, dai black power alle rivolta degli studenti WASP. Tuttavia fu un solo passaggio ad attirare – non senza soddisfazione per l’ego spropositato di Mailer – un mare di polemiche: si può naturalmente argomentare che comporti poco coraggio da parte di due robusti teppistelli di 18 anni, mettiamo, spaccare la testa ad un negoziante di dolci e in effetti l’atto – anche nella logica dello psicopatico-non risulterà probabilmente molto terapeutico, poichè la vittima non è al loro pari. Eppure un certo coraggio ci vuole anche per questo, perché uno non uccide solo un debole cinquantenne ma in lui uccide un’istituzione, viola la proprietà privata, entra in un nuovo rapporto con la polizia e introduce un elemento di pericolo nella propria vita.
Il giovinastro sfida dunque l’ignoto e tutto sommato il suo atto, non importa quanto brutale, non è un atto vigliacco.
Abbott verrà di nuovo condannato. Qualcuno avrà il coraggio di pubblicargli un altro libro, con meno fortuna. Di lui si perdono poi le tracce: il suo nome ricomparirà nelle cronache culturali per l’uscita del film ispirato al ventre della bestia, il duro Ghost.. of the civil dead, film scritto e interpretato da Nick Cave che più volte metterà in the belly tra i libri preferiti.
Nel 2002, dopo un rifiuto per la libertà sulla parola, si toglierà la vita nella sua nuova, ennesima cella.
PS: DeriveApprodi ha da poco ripubblicato, con una nuova e più incisiva traduzione, Nel Ventre della Bestia.