La sedia della felicità di Carlo Mazzacurati

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«Nel cinema di Mazzacurati si snodano le caratteristiche, i vizi, le intuizioni, la generosità e la meschinità di un popolo che forse non è poi così cambiato tanto dagli anni Cinquanta (quando, più o meno, ha cominciato a riconoscersi come nazione), e se mai è cambiato in peggio, diventando, dagli anni Ottanta a oggi, ancora più confuso e disperato. Gli arroganti, i potenti, non fanno per Carlo Mazzacurati. I suoi ‘cattivi’ sono immersi nell’anonimato banale e spesso, all’origine, sono dei poveracci tali e quali agli altri. Le sue ‘vittime’ sono un rimprovero doloroso alla nostra intolleranza e alla nostra cecità. I suoi ‘eroi’ sono persone comuni, magari un po’ stanche, che incappano per caso in qualcosa che li costringe ad andare alla ricerca di un senso». Con questa motivazione il Torino Film Festival ha dedicato il Premio Gran Torino al regista veneto recentemente scomparso dopo una lunga malattia.

Eravamo lì quella sera, emozionati, ad applaudire chi aveva raccontato le mille facce di una terra piena di contraddizioni, dove si può incontrare la solidarietà di tradizione cattolica e l’ingordigia spregiudicata della nuova ricchezza del nordest. In quella occasione veniva presentata La sedia della felicità, la sua ultima opera che uscirà nelle sale, postuma, il prossimo 24 aprile.

Bruna (Isabella Ragonese) è un’estetista che ha difficoltà a pagare le rate delle proprie attrezzature, mentre Dino (Valerio Mastandrea) è un tatuatore che ha il negozio di fronte, dove i clienti provano a pagare le sue opere anche con strani baratti (un enorme e stranissimo pesce in cambio del tatuaggio ricevuto). Entrambi non si può dire che se la passino bene o che siano felici. Il caso però vuole che Bruna, venuta a conoscenza di un tesoro di gioielli rubati nascosto all’interno di una sedia, si troverà a chiedere aiuto a Dino per recuperare la refurtiva. Ben presto, però, scopriranno che di sedia non ce ne è una sola ma tante, come le avventure che saranno costretti ad affrontare, tra personaggi grotteschi e surreali in un’atmosfera a tinte gialle in salsa di commedia all’italiana.

Mazzacurati in questo film ha voluto fortemente, infatti, che il senso della commedia fosse ben presente, tralasciando anche quel sottinteso di amaro tipico dei film delle ultime generazioni di registi del nordest. Il suo, quasi fosse conscio del senso di eredità della sua ultima opera, è stato un testamento d’amore verso un genere di cinema e testimoni sono stati i suoi attori che hanno voluto partecipare tutti, con ruoli principali o anche con piccoli camei, a quest’ultima avventura. La scelta poi dei due attori protagonisti non veneti invece ha evidenziato il carattere pienamente italiano del cinema di commedia di Mazzacurati come già era avvenuto in precedenza, quando erano stati protagonisti Antonio Albanese o Silvio Orlando. Sono gli attori, che dopo aver fatto un film con il regista veneto, acquisiscono la patente di mazzacuratiani, caratterizzazione che non li abbandonerà mai. Come d’altronde lo sono Fabrizio Bentivoglio e ancor di più Giuseppe Battiston che di Mazzacurati è senza dubbio l’anima in campo, il suo alter ego come lo fu Mastroianni per Fellini.

Tutto questo e anche di più ci lascia Carlo Mazzacurati e rivedere la sua ultima opera sarà allo stesso tempo un piacere, per ritrovare di nuovo un umorismo che non dà adito a sguaiatezze, e un dolore per aver perso un vero grande protagonista del nostro cinema italiano.