E se la Grande Bellezza non fosse un film sulla decadenza dei costumi, su Roma e sulle sue idiosincrasie, sull’Italia Belpaese e sulle feste trasteverine?
E se invece la Grande Bellezza fosse un film sull’importanza del tempo perduto, sull’importanza del primo amore?
In fondo la strada che percorre Jep Gambardella, nel momento in cui accendiamo la luce su di lui e i suoi passi, è tutta introversa, tutta propensa a recuperare un’unica immaginaria fata morgana, che si nasconde sempre un po’ più in là dal suo sguardo, che poi è anche il nostro.
E lo snodo del film, il suo fluire, è quasi tutta una recherche su una sfuggevole memoria; restituitaci durante il film da flash back o da immagini para-oniriche che ricordano Il Cielo In Una Stanza (anche in quella canzone c’è un ricordo che affiora, una rottura con il presente a cui si sovrappone un altrove spazio temporale d’amore).
E se così fosse, la Grande Bellezza, il film, non sarebbe altro che una sospensione, un’attesa, quasi un thriller, con un finale beffardo, irrisolto perché su un momento inafferrabile.
E se così fosse, la Grande Bellezza, il film, non sarebbe uno sguardo sulla Roma di Jep Gambardella, sulla bellezza fugace della città eterna così come la vede il giornalista di Servillo.
Se così fosse, la Grande Bellezza, il film, sarebbe uno sguardo sulla città che vede il giapponese prima di farsi venire un accidente.